La mattina del 27 dicembre i miei genitori mi avevano letto un racconto pubblicato su quella che allora si chiamava la rete e che riguardava il tipo di esperienza di coinvolgimento che un sistema bidimensionale di visualizzazione delle informazioni fosse in grado di dare. Fuori pioveva in quel modo in cui sembra ci sia contemporaneamente la nebbia e, come se non bastasse, faceva pure freddo. Il racconto era scritto in forma di articolo, si intitolava “Il mondo superficiale” e argomentava la straordinaria corrispondenza tra la superficialità degli esseri umani di allora con l’assuefazione alle superfici dei display dei terminali in uso, quella primitiva mattonella digitale chiamata smartphone in primis. Le superfici, in quanto piani geometrici a due dimensioni, impongono l’attività cerebrale di ricostruirne la terza con il pensiero. Uno dei pochi sforzi intellettivi in cui l’appagamento supera la fatica di compierli e genera una sorta di dipendenza. L’approssimazione con cui il nostro pensiero calcola il valore del terzo asse causa però un impigrimento emotivo. La generazione a cui appartengo io, cresciuta a spiare le vite degli altri e i successi delle starlette di provincia su Instagram, avrebbe quindi soffocato la capacità di provare certi sentimenti più responsabilizzanti con risultati incresciosi, che secondo quell’articolo corrisponde dal punto di vista psicologico all’estrusione degli oggetti che, ai tempi, se ne rendeva possibile solo un surrogato attraverso la finzione degli occhiali che consegnavano in comodato d’uso al cinema. Ho cercato così tracce di quel racconto o articolo per scrivere un pezzo, oggi in cui la presenza di ologrammi e realtà aumentata è così pervasiva da sostituire la vita delle persone, e dimostrare che quella società dell’immagine portata all’estremo in fondo era il meno peggio. Ero quasi giunta al risultato poi qualcuno mi ha spento. Ci riproverò più tardi.
Mi mancavi