Il paese dell’appennino ligure da cui ha origine la famiglia di mio papà ha le sue specialità gastronomiche, un po’ come tutti i posti del mondo. Mi riferisco a quei piatti o quei sapori che puoi mangiare solo lì e da nessun’altra parte. Magari si tratta di cibi diffusi nella regione o nella provincia o anche in qualche altro comune limitrofo, ma state tranquilli che ogni borgo blandisce la sua ricetta e, per un comprensibile campanilismo alimentare, è convinto di perseguire la modalità di preparazione più corretta degli altri. Il problema è che questa parcellizzazione della cultura gastronomica spesso si riduce ancora e finisce che ogni casa e ogni famiglia personalizza ulteriormente ingredienti e procedura. Che problema c’è, vi chiederete. La diversità è fonte di ricchezza sociale e culturale, però si fa presto a dilapidare questo genere di patrimoni individuali. Basta portarsi la ricetta nella tomba, non lasciare nessuna eredità culinaria, e tutto è perduto.
Mia nonna, la mamma di mio papà, preparava una sua interpretazione di una specie di pane tipico di quel paese in cui era nata. L’elemento caratterizzante era il latte cagliato, usato nell’impasto, e poi la cottura nel piccolo forno laterale di cui sono dotate le antiche stufe di ghisa. Si tratta di un pane che ha un nome, ho cercato informazioni su Internet ma nulla di cui ho trovato è riconducibile negli ingredienti e nell’aspetto a ciò che preparava mia nonna. In estate, quando trascorrevo le vacanze con lei, si svegliava all’alba per impastarli e farmeli trovare pronti a colazione, caldi con il latte o tagliati e ripieni con qualche crema spalmabile. Il massimo però era mangiarli a merenda con il salame. Ecco, ora devo fermarmi perché sto salivando.
Mia nonna è morta quando avevo quattordici anni e forse, considerando il suo stato di salute, l’ultima volta in cui me li avrà preparati potrebbe risalire all’estate dell’anno prima, il 1981. Dopo la sua scomparsa non ho mai più mangiato quei panini così particolari perché erano frutto di una sua ricetta segreta. Ho provato altre varianti piuttosto comuni nella zona, quasi tutti utilizzano le patate o la cipolla nell’impasto. Ma io sono sicuro che quelli che faceva mia nonna non contemplavano l’impiego di tali ingredienti, la consistenza sarebbe stata molto diversa. Il punto è che la ricetta di quel tipo di pane è sparita nel nulla insieme alla vita di mia nonna. Non ha tramandato il segreto a nessuno, né alla nuora né ai nipoti.
Non so se vi capitano i deja-vu ma all’altezza del palato. Sprazzi di reminiscenze provenienti da chissà dove in cui per qualche istante effimero vi sembra di ritrovare sapori ancestrali (capita anche con gli odori). A me è successo solo un paio di volte, entrambe con il pane che faceva mia nonna. Pensavo a tutt’altro quando all’improvviso mi sono ritrovato quel sapore in bocca e avrei voluto in qualche modo isolarlo, campionarlo come si fa con la musica o con il contagocce di Photoshop per analizzarlo e capire di cosa era composto per poi clonarlo, replicarlo e ricostruire, in qualche modo, quel pane impastato con il latte cagliato e poi cotto nella stufa a legna per trovarlo caldo al risveglio domani mattina, e magari domani mattina è una mattina d’estate del 1981.