Non riesco a farmene una ragione. A me le bici del bike-sharing lasciate incustodite in certe zone suburbane di Milano mi mettono ansia. Mi fanno tenerezza quando le osservo di notte appoggiate lungo certe strade di periferia male illuminate come se fossero animali domestici che si sono persi, forse perché tutto sommato hanno una linea che induce il prossimo a provare pietà di loro. Qualcuno avrà fatto degli studi per trovare un modello che ispiri questo genere di sentimenti e spinga gli utenti al rispetto, a non gettarle nei Navigli, a non appenderle sugli alberi, a non nasconderle in cantina per il proprio tornaconto. Nel nostro DNA è impressa da qualche parte questa forma genetica di possessività per i mezzi di trasporto privati, non si spiega perché si debbano dedicare costosi metri quadri dei propri possedimenti per ospitare automobili con l’obiettivo di proteggerle dalle intemperie e dai malintenzionati. La cosa funziona anche per le biciclette e per i babbei come me che legano le due ruote, oltreché alla rastrelliera condominiale, anche alla spensieratezza dell’infanzia. Biciclette, bimbi, sole e parco giochi, mentre bike-sharing in mano a chissà di notte nell’hinterland d’inverno è niente di tutto questo. Ne noto spesso tornando a casa, io che vivo in periferia. A volte nel buio si fa fatica a riconoscerle malgrado i colori sgargianti. Così abbandonate mi viene voglia di accoglierle in casa, di offrir loro qualcosa di caldo e di corroborante e poi un rifugio in cui passare la notte prima che qualcuno meno gentile di me se ne approfitti. Mi chiedo anche chi si spinga così lontano dal centro di Milano a quelle ore con quei catorci con cui persone mediamente alte fanno una fatica boia a pedalare e quale destinazione abbiano raggiunto gli utenti temporanei per averli lasciati in posti così poco frequentati da anima viva. Ecco, le biciclette dovrebbero restare vicino agli esseri umani e alla civiltà, anche se di qualità scarsa come quelle.