A me non piace svegliarmi fuori casa. Mi piace aprire gli e trovarmi nel mio letto nella mia casa alle porte di Milano. Sapere che al di là della finestra della stanza in cui mi trovo al risveglio c’è il parcheggio dove lasciamo una delle due auto mentre l’altra è nel box e, a pochi passi, c’è il benzinaio Total gestito dai due fratelli spilungoni con cui ormai ci diamo del tu e ci salutiamo quando transito lì davanti a piedi mentre vado al discount all’angolo per comprare quello che manca in dispensa in caso di emergenza. Mi piace persino lo smog della mattina, quello per il quale se apri la finestra per cambiare aria fai del bene a quelli che passano fuori con l’aria viziata della notte in camera da letto. Qualche giorno fa mi sono svegliato in un casolare in un paesino dell’Umbria, con vista su una vallata e Assisi sullo sfondo. Da lì sono partito per un appuntamento di lavoro, ma mentre in macchina con un collega attraversavo le strade in aperta campagna, con viste mozzafiato e tutta quell’abbondanza di borghi medioevali, non capivo come fosse possibile vivere fuori da Milano. Come le persone possano sentirsi produttive in un posto così, con quelle distanze tra i luoghi, senza i tram e gli autobus e quella continuità urbana che ha cancellato ogni limite della città metropolitana tra un comune e quello limitrofo. Ho scoperto così che ci sono degli interstizi anche molto ampi, in Umbria, e non solo in senso geografico, o tra le vite di una persona e di quella che trovi dopo. Ci sono dei gap che non mi so spiegare perché qui a Milano è tutto meravigliosamente appiccicato. La smart tv con la riunione in ufficio con il lunedì mattina con l’impegno sportivo dei figli con l’Esselunga con il lampione di fronte che non si spegne mai con la corsetta del sabato e della domenica mattina con i vicini che litigano con le chiamate dei call center con i pacchi Amazon e con i valori di upload e download della fibra di Fastweb. Io non so cosa mi sia successo, ma preferisco vivere nella contemporaneità e svegliarmici dentro.