Siamo gente scomoda, che vive scomodamente e che risulta scomoda agli standard. Abbiamo parenti talvolta impresentabili, vecchi o malati o fuori come dei balconi, nel migliore dei casi inutilmente tromboni perché, quando discutono, si mangiano le parole ma comunque già di per sé riferite ad argomenti che non interessano a nessuno. Nel peggiore invece non chiamano per mesi la madre ultra-novantenne (ma tutto sommato in forma) abbandonata in una casa di riposo a 200 km di distanza e, al contempo, vivono reclusi in una specie di baracca in un cantiere della pedemontana piuttosto che affrontare il traffico del viaggio in macchina andata e ritorno a Milano dove vivono moglie e figli, con l’aggravante che quella non è tanto una scusa per non stare in famiglia, piuttosto un gettare la spugna alla depressione indotta dall’osservare le persone che si amano cambiare così repentinamente con l’età. Siamo gente scomoda e ci arroghiamo taglie che o ci stringono o ci cascano addosso senza compromessi in vestibilità a meno di non ricorrere agli abiti su misura che non ci possiamo però permettere. Perché poi questo è il problema che ci arrovella e che riguarda tutti gli ambiti delle nostre vite. Facciamo mestieri di concetto superflui e giustamente sottopagati perché auto-riferiti o al massimo utili a una micro società di persone come noi che non ne ha bisogno. Questo ci relega in quella categoria in cui è pieno di gente simile, con buoni gusti ma costretti in un mercato caratterizzato da prezzi inaccessibili. In più abbiamo velleità mai corrisposte a cui aneliamo rotti nella nostra struttura corporea asimmetrica, una gamba a volte più corta di quella gemella, qualche anomalia nella linea della spina dorsale, evidenti problemi di postura che ci rendono irrequieti nella nostra incapacità di stare immobili nello stesso posto. Evitiamo ogni attività che comporti stare in equilibrio. Pretendiamo che la gente ci apprezzi per quello che siamo ma sappiamo benissimo che è un discorso che non sta in piedi. Come noi, del resto.