A cavallo tra gli ottanta e i novanta vedevo Federico Fiumani ovunque. Principalmente sul palco perché i Diaframma in quel periodo mi piacevano di brutto anche se non capivo come fosse possibile reggere e gestire un cambiamento così drastico tra il timbro e la vocalità di Miro Sassolini e la sua, quella di Fiumani, intendo. Poi lo vedevo passare tantissimo in tv con quel pezzo pazzesco che era “Gennaio” e che aveva un video altrettanto dirompente. “Gennaio”, urlava Fiumani, e nel mentre scardinava tutte le regole della canzone e della metrica dei testi, con un riff di chitarra perfetto, un brano sfrontato e antagonista nei confronti del modo di intendere la musica e quello che erano stati i Diaframma stessi con il cantante precedente.
Pur essendo (e lo sono tutt’ora) del team Sassolini, come diciamo noi giovani d’oggi per dichiarare l’appartenenza a qualcuno o qualcosa, apprezzavo il coraggio con cui Fiumani aveva accettato la sfida e dove voleva condurre il suo progetto. Avevo acquistato “In perfetta solitudine” su cassetta e tenevo quel nastro fisso costantemente nel walkman, ero alle prese con la leva obbligatoria e il titolo del primo album solista di Fiumani – benché sempre a nome Diaframma – riassumeva perfettamente quel periodo della mia vita. Come tutti i miei commilitoni ero single e isolato in quell’esperienza a suo modo incomparabile e unica che era l’esercito.
Una volta congedato ero così fissato con Fiumani che sono certo di averlo visto in concerto almeno quattro o cinque volte nel giro di una manciata di mesi. Me lo immaginavo fuori luogo come nel testo di “Caldo” o cinico in quello di “Irriconoscente”, con quella camicia alla coreana che indossa nella foto del retro copertina di “Siberia”, un toscano un po’ presuntuoso come tutti quelli che avevo conosciuto sotto le armi, la caserma era un’opportunità che ti apriva al mondo, sotto questo punto di vista.
Mi rivedo a saltare sotto il palco in una bella serata alla festa dell’Unità di Genova nel 91, e quando poche settimane dopo l’ho avvicinato al termine di un concerto in un locale lì vicino per farmi firmare un manifesto della serata e chiedergli che ne pensasse della svolta dei Litfiba con le percussioni. Più gli parlavo e più mi affascinava. Una volta l’ho pure incontrato sulla metro a Milano, lui di Firenze e io di Savona, eravamo solo noi due vestiti tutti di nero in un vagone gremito di gente disattenta, e infatti solo io credo di averlo riconosciuto, e ci siamo studiati reciprocamente interrogativi.
Un vero integralista di se stesso, uno che non si è mai arreso e non penso che lo abbia mai fatto nemmeno ora. Ogni tanto leggo che è uscito un suo ellepì e mi stupisco del fatto che non sia mai tornato sui suoi passi, ai Diaframma di un tempo, quelli con Miro Sassolini alla voce, lui che davvero mi sono sempre chiesto come sia possibile che basti la sicurezza di sé a convincere il pubblico che non sei per nulla stonato come una campana.