Il buio stringe da sopra e da sotto e di quello che rimane della giornata è tutto un modo per spartirlo con le cose da fare. Non c’è un segnale, un fischio d’inizio, una notifica sullo smartphone che avvisa che, da quel giorno in poi, le cose cambiano, perché lo spartiacque come lo intendiamo noi non esiste. Sembra tutto un divenire, un morphing dentro e fuori di noi il cui frame finale lo riconosceremo anche questa volta come tutti gli anni, come quando i video su Youtube volgono al termine e qualcuno ci consiglia che cosa vedere dopo. Io me ne sto ancora in maniche di camicia ma è una questione di colori, di tessuti e del loro spessore, di umidità, di sole che si fa sempre più strano, sempre più riservato, sempre meno disponibile. Il disagio sopportabilissimo si avverte proprio nell’incompatibilità tra queste cose. C’è tutto un fermento che non ci dovrebbe essere perché, in natura, certi tipi di risvegli sono ammessi solo in primavera. Non bisognerebbe confondere la ripresa del solito tran tran con le farfalle nella pancia. Ma la città non è fatta per queste cose, altrimenti qualcuno avrebbe già inventato le pareti esterne dei palazzi azzurre e verde smeraldo, i tetti arancioni e persino l’asfalto sarebbe giallo come il mattino. In città si sta come d’autunno nelle case e negli uffici i comuni mortali, fuori non ci interessa, le castagne e il foliage lo lasciamo per le domeniche da sfaccendati all’agriturismo, a bere vino rosso a pranzo in quantità smodata. Questa è la non-stagione in cui accendiamo le tv a pagamento, accompagniamo i figli alla metro con lo zaino a forma di vocabolario di latino, usciamo e rientriamo che è sempre buio e non sappiamo il perché ma la vita è questa, non quella specie di dimensione sospesa in cui non si capisce niente, si suda anche a stare fermi e ci si riempie di fantasie che non stanno né in cielo né in terra.