Dopo mesi di Netflix a 42 pollici sono tornato in una sala cinematografica di quelle giganti con lo schermo grande tanto quanto una parete e quel sistema di audio con gli effetti e la musica che ti arrivano da tutte le parti per vedere un film probabilmente pensato per quel tipo di sale cinematografiche lì. Dunkirk è un kolossal sulla seconda guerra mondiale dedicato al pubblico del super-mega-dolby sorround, agli amanti dei film spara-tutto e persino alle Directioner incuriosite per la chiamata alle armi di Harry Styles.
Mentre passavano i trailer dei film che stanno per uscire, prima dell’inizio di Dunkirk, riflettevo sui supereroi che si alternavano sullo schermo con tutte le loro mosse tutte uguali, le immagini che rallentano, la soggettiva sulle pallottole, i mostri che si fanno avanti minacciosi, i close up sui volti parzialmente coperti dalle maschere hi-tech dei vari uomini-pipistrelli, e mi sono chiesto se non fosse un caso che li trasmettessero lì, tra i bidoni di popcorn, nell’attesa di un film di guerra diretto da uno che di supereroi se ne intende, un po’ come su Youtube quando finisci un video e ti compaiono i link correlati. Ho pensato anche se, di lì a poco, mi sarei dovuto orientare tra piani temporali mescolati lungo uno dei racconti diacronici di Nolan e che cosa mi sarebbe rimasto di un film di guerra in cui, con i piani temporali, c’è poco da divertirsi. In battaglia prima sei vivo e dopo sei morto, oppure se dopo sei salvo vuol dire che ti è andata bene. Per non parlare, quindi, di supereroi. In una guerra come quella ce ne sono stati milioni e c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Tutto questo si è confermato durante la visione. Batman applicato alla seconda guerra mondiale e ai problemi contingenti con cui si sono dovuti cimentare i protagonisti eroici o un po’ meno di quelle vicende – navi che affondano e commilitoni che affogano, bombe che cadono, aerei che precipitano colpiti, pallottole che fischiano vicine, corpi che muoiono – dà comunque i suoi frutti: il film, da questo punto di vista, è sin troppo spettacolare, coinvolgente ed emotivamente trascinante.
Riportiamo allora l’attenzione sugli uomini e sull’individuo. La guerra è una vicenda corale per eccellenza, ma a vederla da vicini – almeno nella finzione cinematografica – è un insieme di micro-storie di persone che si uniscono e determinano i destini dei popoli. Milioni di storie spesso drammatiche in cui la vita o la morte dei singoli sono niente in confronto all’enormità della guerra. In Dunkirk, lo saprete, ci sono migliaia di soldati britannici da mettere in salvo sulle coste francesi, con un nemico al momento invincibile che preme alle spalle e minaccia dal cielo. Le truppe inglesi in attesa sembrano essere allo sbando sulla spiaggia di Dunkerque, alcuni perdono lucidità e per chi cerca soluzioni avventate sembra non esserci scampo. C’è una scena molto esemplificativa, da questo punto di vista. Un soldato, un solo tra quelle decine di migliaia, stremato dalla mancanza di una via di salvezza si libera degli orpelli da combattimento e si getta tra i flutti per attraversare la Manica a nuoto. Il link al film “Welcome” di Philippe Lioret e al clandestino che si allena in piscina a Calais per raggiungere le coste inglesi e la sua famiglia sfidando le onde è stato immediato. Ogni epoca ha le sue traversate, ha i suoi nemici che premono alle spalle, ha le sue salvezze davanti e i rischi per raggiungerle, in qualche modo. Poi, cercando recensioni a casa, ho trovato questa di Giap in cui si spiegano tutte queste cose in un modo molto più efficace del mio e che vi prego di leggere per dirmi, poi, se anche voi la pensate così.