So che sarete sommersi dagli sproloqui dei vostri contatti sui social che vi stanno spiegando Fantozzi in lungo e in largo, d’altronde il bello di Facebook è proprio lasciar tracimare la nostra presunzione più che mai e, in momenti come questi, è la morte sua, perdonate il gioco di parole. E io che voglio essere ancor più originale dei miei amici che, proprio in questi minuti, si commentano a vicenda con cose del tipo “Io lo faccio leggere ai miei allievi che vogliono diventare copy” se non addirittura “Fantozzi/Fracchia è IL grande romanzo italiano degli anni ’70-’80. Come rilevanza culturale per l’epoca in cui Villaggio ha vissuto, non mi pare avere nulla di meno di un Parini, di un Goldoni, di un Molière o di un Giovenale. Quanto alla capacità di creare espressioni idiomatiche che resteranno nella lingua italiana per decenni e forse secoli, sta a suo perfetto agio nel gruppetto dei Dante, Manzoni, Leopardi. Certo, rispetto a loro aveva il rinforzo del mezzo cinematografico, ma il fatto che l’abbia saputo usare in quel modo, almeno per un po’ di anni, mi pare rientri tra i suoi indiscutibili pregi (alla stessa maniera in cui la grandezza di un Voltaire, di un Sartre, di un Camus o di un Pasolini è stata anche quella di aver saputo usare i media mainstream della loro epoca per divulgare le loro idee)” (giuro), io che voglio essere ancor più originale di loro voglio ricordarlo con un film di certo minore della sua produzione ma ricco di spunti brillanti di quella che era la nostra società nel 77.
La pellicola in questione è di Luciano Salce e si intitola “Il… Belpaese”. Paolo Villaggio ne è il protagonista e impersona Guido Belardinelli, un uomo che rientra a Milano dopo una lunga esperienza su una piattaforma petrolifera piombando nel pieno degli anni di piombo (è voluta anche questa). Avvia una rivendita di orologi ma tra malavita, spaccio, espropri proletari e manifestazioni studentesche le cose non gli vanno per il verso giusto. Poi l’amore, come al solito, fornisce spunti per vedere le cose da un punto di vista tutto suo e infatti Guido consolida una relazione scapestrata con un’indiana metropolitana che vuole avere un figlio da lui, tanto da fargli rinunciare, alla fine del film (attenzione spoiler) alla volontà di rientrare, amareggiato dalle vicende personali e collettive, sulla piattaforma petrolifera da cui si era allontanato.
I temi sono a grandi linee gli stessi delle altre opere in cui Villaggio è stato autore o protagonista. Il film infatti gli calza a pennello, e come per i vari Fantozzi e Fracchia durante la visione lo spettatore non può non trovarsi costantemente in bilico tra la farsa e la tragedia, tra il comico e il grottesco, tra le risate e le lacrime, tra l’ironia e la compassione. In questo Paolo Villaggio è stato un maestro, su questo non ci sono dubbi e io che ho pietà di voi evito di spiegarvelo. Ho visto i suoi film ma, come il commentatore di cui sopra, ho divorato i suoi libri benché, ai tempi, fosse considerata letteratura leggera e quindi letteratura per modo di dire. Questo me lo ricordo bene perché scelsi proprio una delle sue raccolte di racconti alla base dei suoi film come testo su cui scrivere una relazione al liceo, con sommo (e sacrosanto) disappunto della mia professoressa. D’altronde i miei compagni di classe leggevano cose ben più impegnative. Va be’, caro Paolo, caro compagno Villaggio (non dimentichiamo la sua militanza nel PCI prima e in DP più tardi), ora che sei in paradiso sul serio facci sapere se Dio ha davvero le sembianze di un Amministratore Delegato che si, lo so, Villaggio lo chiamava Megadirettore Galattico eccetera eccetera ma diamine, da voi pretendo un po’ più di elasticità.
Mai riuscita a vedere un Fantozzi intero. Mi fa star male