C’è chi sostiene che il bello di vivere nelle metropoli sia la bassa probabilità di incontrare le stesse persone con continuità, un plus non da poco considerando che di routine ne abbiamo fin troppe. Si tratta di una filosofia – se vogliamo chiamarla così – che scaturisce dalla nostra attitudine a osservare le facce delle persone, ricordarsele, osservarle una seconda, terza e quarta volta per confermare la veridicità di questa teoria strampalata. Un approccio che può essere pericoloso perché ti fa venire voglia di far parlare i visi che si passano in rassegna e quando inizi con questa storia delle conversazioni non ne esci più. Oggi parliamo di meno, forse parliamo più al telefono, ma in genere siamo molto più concentrati su noi stessi. Ci rivolgiamo al nostro interno che non è fatto solo di corpo, mente, anima, coscienza o come diamine la vogliamo chiamare. Abbiamo aggiunto una componente digitale alla nostra natura che teniamo tra le dita, in mano, appoggiata sulle ginocchia quando siamo seduti, con diramazioni nelle cavità auricolari, ricca di colori e di suoni, piena di cose da leggere, contemplare, osservare, imparare o dimenticare, condividere, suggerire, commentare, riflettere. Viviamo con un serbatoio di emozioni sempre al nostro fianco, a volte si scarica ma ci siamo organizzati per non rimanere mai all’asciutto e che è strutturato come la nostra mente ma molto più semplice da usare, esercitare, aumentare di capacità, formattare o cancellarne le parti meno usate. Prendiamo da lì le stesse cose che vediamo nelle facce della gente, che è sempre diversa (soprattutto se viviamo nella metropoli) e come la vastità dell’Internet che abitiamo non ci annoia mai, almeno finché la gente non parla perché, a onor del vero, il rischio c’è e le persone non si possono certo liquidare come un’applicazione qualunque da cui si esce e chi si è visto si è visto. Immagino che avrete capito dove voglio arrivare. Domani si inaugura il “Semestre mondiale della conversazione” che, per la prima volta dal dopoguerra, è guidato proprio dall’Italia. Nelle città, nelle campagne, all’aperto o al chiuso, in luoghi silenziosi o caotici, il nostro dovere per i prossimi sei mesi sarà quello di ascoltare e raccontare, dire e tacere per sentire, far domande e valutare risposte, consolare e chiedere aiuto, sperare e ottenere conferme, convincere e lasciare che qualcuno insista per farci cambiare idea. Non è detto che al termine del semestre tutto torni come prima con i nostri sguardi silenziosi nel vuoto a scavarci dentro per raschiare il fondo di quello che proviamo e delle parole che abbiamo messo da parte a supporto. Prima o poi finiscono anche quelle, ci vuole linfa nuova e vitale. Provate a chiederla a qualcuno, non ve ne pentirete.