Ho o non ho ragione? Ciascuno di noi fa del suo meglio per riequilibrare le disuguaglianze tra i popoli, ristabilire i valori delle cose affinché la terra come la conosciamo noi sopravviva confortevole anche per i figli dei figli dei figli dei figli dei nostri figli, contribuire alla pace nel mondo, estendere i diritti civili su scala mondiale termonucleare globale, alleviare i dispiaceri di chi soffre, dare speranza a chi l’ha persa, sforzarsi affinché questo blog diventi sempre più seguito. Scherzo eh. Comunque capisco gli insofferenti alle social-ricorrenze e alla valanga di solidarietà calendarizzata. Davvero, che due coglioni.
Se siete del mestiere come me saprete che c’è gente pagata dalle aziende per postare sulla pagina Facebook uova di Pasqua a Pasqua, alberi di Natale a Natale, auguri alla mamma nel giorno della festa della mamma e così via. Appiccicato da qualche parte nell’ufficio di questi manovali del “social media engagement” c’è un foglio di Excel che ricorda loro che giorno è oggi in modo che riescano a grattare il fondo della banalità contenutistica e irrorare fuffa digitale nel web, nemmeno ce ne fosse il bisogno. La cosa succede anche in occasione della festa della donna, manco a dirlo, e attenzione: non ho nulla contro le vostre foto di mimosa, davvero, né mi sento superiore perché mi sottraggo alle celebrazioni precostituite, ve lo giuro.
Anzi, per dimostrarvi la mia sincerità vi dico come ho festeggiato io l’otto marzo, e lo farò confessandovi una mia vergognosa lacuna frutto di un’attitudine discriminatoria. Se guardo la mia collezione ormai quasi quarantennale di trentatré giri, la percentuale di voci femminili soliste o in gruppo è ridottissima. Ho un paio di dischi dei Matia Bazar nel periodo Mauro Sabbione, Siouxsie, M.I.A., i Portishead, i Cocteau Twins, This Mortal Coil. Stop. Anche estendendo il calcolo ai cd, non c’è molto di più: Lali Puna, Marisa Monte, Amalia Gré, Ani di Franco, Alanis Morrisette, i 99posse con Meg, i Daughter. E vi assicuro che nella tonnellata di musica che c’è a casa mia è veramente una goccia in un mare. Non so se sia un caso, una pregiudizio latente o chissà cosa. Così per una serie di coincidenze ho unito l’utile al dilettevole.
Tutto è nato da questo articolo su Repubblica comparso ieri e che mi ha riempito di gioia. Ho scoperto Valerie June per caso, e non mi ricordo nemmeno come, tanti anni fa, e se non ci credete e pensate che voglia fare quello che l’ascoltava “before it was cool” leggete qui questo mio post sui migliori dischi del 2013 e ditemi se non ci avevo visto giusto. Comunque proprio ieri è uscito il suo disco nuovo che si intitola “The Order of Time” e, anche se non l’ho ancora assimilato come il precedente “Pushin’ Against A Stone” che davvero, l’ho consumato su Spotify, merita senza ombra di dubbio. Mi sono innamorato del suo timbro, del suo modo di cantare, dell’andamento delle sue canzoni che suonano blues e folk ma che sono di una drammaticità senza tempo e, per questo, attualissime e sono certo che se la provate vi innamorerete come me.
Ecco, per farla breve, visto che il suo nuovo disco è uscito solo ieri, ieri l’altro ho voluto festeggiare l’otto marzo con un giorno di ritardo acquistando il disco di una voce femminile – e che voce, quella di Valerie June – cominciando proprio da quello precedente, rigorosamente su vinile, con l’idea di prendere quello nuovo alla prossima tornata. Mica posso comprarmi un disco al giorno, eh, con quello che costano.