Li chiamano buste, borse, sacchetti con la e aperta da milanese o chiusa. Inquinano mari e monti perché gli incivili li usano per trasportare i panini con la mortadella ai picnic e poi li lasciano alla mercé del vento che li trasporta nel peggiore dei casi in mare, dove soffocano i delfini (anche se mai come i bastoncino cotonati), nel migliore nella natura in cui resteranno per sempre, sapete i tempi che ha la plastica per degradarsi. Io non li so, e anzi sono convinto che siano eterni. Un tempo ce n’erano un botto perché te li davano gratis i negozianti indipendentemente dalla cosa che dovevi trasportare, dalla più piccola alla più grande. E te li davano i negozianti perché le buste, borse o sacchetti – a seconda di dove vivete – costituivano un efficace strumento di marketing. Di materiale eterno, alla faccia dei delfini, tu li portavi in giro e facevi pubblicità eterna e a investimento zero ma con grandi possibilità di ritorni, altro che marketing digitale.
I sacchetti (da noi si chiamano così) dei negozi però era vietato sfoggiarli in altri negozi, questa era una delle peggiori figure che i genitori – cresciuti con il senso di colpa di aver contribuito anche in minima parte a condurre il mondo alla seconda guerra mondiale – insegnavano ai figli a evitare, più di ogni altra cosa. Poi per qualche cazzo di ecologista che si è messo di traverso, i sacchetti, quelli veri, sono spariti dalla circolazione soppiantanti dalle buste in materiale biologico che, a malapena, trasportano l’aria perché basta un litro di latte che vanno in mille pezzi. Il più delle volte però i sacchetti li devi chiedere e pagare, farli stampare personalizzati costa e, si sa, la crisi. Per questo gli acquirenti sempre più spesso usano borse senza brand che stanno bene su tutto, sia per i negozi di abbigliamento che per il salumiere.
C’è un tipo di sacchetto, però, che è sparito dalla circolazione molto prima. Un tipo di sacchetto di cui si sono perse le tracce nei primi anni novanta, quando i CD hanno soppiantato i dischi in vinile e dopo, quando il digitale ha soppiantato i negozi di dischi. Un tipo di sacchetto dalla forma e dalle dimensioni inconfondibili, pensato appositamente per trasportare i long playing dal negozio di dischi a casa, e poi da conservare per eventuali trasporti successivi. A una festa o a casa di amici per un ascolto collettivo, come si usava una volta. Di questo tipo di sacchetti esisteva ovviamente anche la versione in miniatura per i 45 giri, che messa vicina a quella dei 33 faceva persino tenerezza.
La morale di tutto questo è che oggi, se vai ad acquistare un vinile in un negozio, ammesso che trovi i negozi di vinile, a meno che tu non lo chieda espressamente, nessuno ti dà un sacchetto ad hoc con il logo del negozio, e quando lo chiedi, non esistendo più i sacchetti ad hoc o non ancora, considerando che le vendite dei vinili che sono riprese però non ne giustificano ancora il ritorno, quando lo chiedi, per trenta centesimi ti rifilano un borsone generico anonimo o comunque pensato per tutt’altro tipo di contenuto, un bustone a tinta unita che, il tempo di arrivare a casa, finisce direttamente sotto il lavandino della cucina, candidato per il successivo giro di spazzatura. Ci sono i collezionisti di vinile, chissà se ci sono anche i collezionisti di sacchetti per il trasporto di vinile.
“Sporte”. Così da queste parti. A casa mia non si comprava il vinile perché non c’era stereo, solo un mangianastri e le borse per le cassette mica erano così speciali, ma. Se ci fossero state io le avrei collezionate
Non ho fatto in tempo a essere un’acquirente di vinile, purtroppo. Però questo dilemma di buste, borse o sacchetti ancora mi frega e non riesco mai a decidermi: sono cresciuta chiamandole “buste”, ma nei miei vari spostamenti in giro per l’Italia ho usato tutti i termini, “sportine” compreso. Ora vivo in un posto in cui li chiamano “sacchetti”.