La Patty e quattro sue amiche avevano preso in affitto un piccolo appartamento ed era evidente che l’intenzione era quella di utilizzarlo come pied-à-terre. La notizia si era diffusa in un paio di giornate grazie ad alcune malelingue, fino a quando l’ex fidanzato di una di loro, con un paio di fedelissimi a dargli man forte, aveva messo in opera una vendetta sin troppo efferata disegnando un lungo sentiero di cazzi con lo spray bianco da una via a grande frequentazione fino al portone, causando il disappunto dei condomini, del padrone di casa e dell’agenzia che, pur di liberarsi di inquiline di quel tipo, gli aveva poi stracciato il contratto in faccia restituendo loro l’intera caparra, a costo che sparissero nel giro di ventiquattr’ore e non si facessero più vedere. Una di loro, Michela, ci aveva riprovato qualche tempo dopo ma con un gruppo misto di persone, in modo da stemperare il mix tra desiderio di libertà e voglia di alcova senza rischi per la reputazione. Ancora oggi, se certe cose le fanno i maschi danno meno nell’occhio.
Conservo ancora qualche foto fatta in quella casa dall’arredamento per turisti di bocca buona che non trovano nulla di meglio della riviera ligure di ponente, quel genere di appartamenti che fuori stagione costano poco. Il punto è che io e Paola un posto tutto nostro non ce lo potevamo permettere e così, pur non contribuendo all’affitto, in casi estremi mi facevo lasciare le chiavi e Michela e i suoi amici chiudevano un occhio.
Avevo provato, in realtà, a cercare di rendermi indipendente ma Paola la considerava una questione di principio. I soldi per una casa, secondo lei, dovevano essere frutto del proprio lavoro per conferire il vero valore di emancipazione all’operazione. Raggiungere il totale della mensilità grazie anche a solo una parte della paghetta dei genitori, sebbene in aggiunta alle varie trovate con cui ci si ingegnava per sbarcare il lunario, era inammissibile. Avevo chiamato persino il papà di Massimo che aveva un monolocale sfitto nei vicoli e me lo avrebbe dato per l’equivalente di quello che tiravo su con quattro serate di pianobar al mese, ma lei, su questo aspetto, non cedeva a compromessi, tanto che ho ancora il dubbio che tutto quel rigore alla fine fosse solo un pretesto.
Quindi, alla fine, il periodo in cui mio padre è andato al lavoro il lunedì mattina con la stessa macchina con cui io e Paola durante il fine settimana ci davamo da fare non è durato poco. Il fatto è che non ricordo di aver mai prestato particolare attenzione al modo in cui gli facevo trovare l’auto dopo il mio utilizzo, né di avergli mai manifestato una riconoscenza esplicita alla sua cortesia, che io ritenevo un mero dovere genitoriale. A distanza di così tanto tempo – ero uno studentello universitario neopatentato, quindi esattamente trent’anni fa – e oggi che ormai mio papà non c’è più, mi chiedo come abbia potuto sopportare certi trattamenti all’abitacolo della sua Ritmo bianca, pur non essendo mai stato lui un meticoloso proprietario di quelli che, ogni due per tre, trascorrono le domeniche all’autolavaggio. Eppure qualche traccia doveva pur rimanere. I capelli lunghi, gli odori dell’età, le sigarette malgrado i finestrini aperti. Mio padre ed io non abbiamo mai affrontato l’argomento. Oggi, a ridosso del giorno dei morti, ho osservato la sua foto sulla lapide e gli ho chiesto scusa per questo, anche se un po’, mentre ripensavo a tutta questa storia, mi scappava da ridere.
“ho ancora il dubbio che tutto quel rigore alla fine fosse solo un pretesto.” Questa frase mi ricorda qualcosa e dopo tanti anni (20) sì, posso dire con certezza che quello era un pretesto, almeno per quanto mi riguarda.
A dire la verità certe cose sono quasi sempre dei pretesti: cose che non sappiamo dire o non sappiamo come sistemare e allora ci aggrappiamo sui dettagli, spesso irrilevanti.
Quel chiedere scusa e ridere davanti alla lapide sa di affetto sincero per quanto postumo.
ml
(piaciuto)
grazie
Magari a tuo padre piaceva quell’odore di giovinezza.