la fine delle vacanze distrugge ogni poesia

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Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito l’ultimo giorno di ferie. A parte la morte e la malattia e la disoccupazione vi viene in mente qualcosa di più nefasto del rientro in ufficio? A me nulla, e alla vigilia del ritorno è un tripudio di fantasticherie su ciò che si potrebbe fare al posto di ripartire per un altro anno di stenti, alle prese con un lavoro di merda. L’esperienza è devastante e agli antipodi della poesia, ma la metafora sulla miseria del genere umano e del suo destino è oltremodo calzante: perché tutto finisce così presto? Io in vacanza non ci vorrei nemmeno andare perché è una condizione così distante dalla nostra natura che poi rientrare è impossibile. Lo stato di divertimento favorito dall’ozio probabilmente è un elemento alieno che si impossessa di noi e libera le barriere dell’inibizione, si dorme fino a tardi, si sopportano temperature da fonderia e attese che normalmente ci indurrebbero ad agire per vie legali, ci rendono più propensi a fare attività fisica, ci lasciano disorientati con la testa vuota da crucci, scadenze e responsabilità il cui archetipo va ricondotto alla inevitabile battuta di caccia quotidiana dei nostri antenati primitivi per assicurare la sopravvivenza ai propri cuccioli. Qui, anche al di fuori da logiche all inclusive o anche solo da antipasti al carrello con le gambe sotto il tavolo, siamo esposti a rischi del calibro del fornelletto che esaurisce il gas mentre cuoce la pasta o il neonato che strilla nel camper accanto, vittima di genitori inadatti al ruolo, e che ti sveglia alle sei. Io in vacanza non ci voglio andare e lo dico ogni volta perché poi mi sento un deportato della realtà, costretto a un viaggio di ritorno all’inferno stipato nei vagoni piombati della civiltà occidentale. Io in vacanza non ci voglio più andare, lo scrivo ogni anno e giuro che l’anno prossimo ci andrò di nuovo. 

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