Alle 14.00 di vent’anni fa, ieri salivo sul palco del Concerto del Primo Maggio a Roma. Non sto a raccontare l’emozione di stare davanti a decine di migliaia di persone che battono le mani a tempo mentre suoni perché è facile da immaginarsi. In realtà nella band in cui militavo e che mi ha permesso di raggiungere il punto più elevato della mia breve carriera musicale da uno che voleva fare il musicista professionista, in quella band purtroppo ero poco più che un turnista. Si trattava di un gruppo costruito pressoché a tavolino nato sulle ceneri della formazione che aveva pubblicato il primo cd, in cui ero stato reclutato per la chiusura della registrazione del secondo. C’era una promettente produzione con un tizio inglese che aveva collaborato già con alcuni nomi di grido, una major che avrebbe fatto uscire il cd, una rete di contatti giusti invidiabile, lo studio di registrazione con il tecnico del suono più di moda al momento, persino un agenzia seria per i concerti. C’erano state persino interviste, articoli e prime pagine sui giornali. Servizi fotografici e agganci per far parte di festival e appuntamenti con altre band ben più famose di noi. Persino passaggi televisivi e un live alla radio del più famoso volpone della musica commerciale italiana. Nonostante tutto questo, i risultati di quell’esperienza sono stati inqualificabili. Dopo qualche mese da quel primo maggio avevo percepito la parabola discendente e mi ero defilato grazie a un impiego normale, che a differenza della musica mi avrebbe garantito uno stipendio regolare.
Il punto però è quella partecipazione al concerto in piazza San Giovanni, con Sting nei camerini che non si lasciava avvicinare nemmeno dagli addetti ai lavori, Veltroni in visita ufficiale, Marina Rei scalza e Mara degli Ustmamò bellissima. Suonare come un turnista o poco più in un’occasione come quella è uno spreco emotivo che non vi sto a dire. Una frustrazione che non ha eguali, come fare l’amore a comando, come mangiare qualcosa di scadente solo per riempire lo stomaco, come bere una birra calda quando si muore di sete. Eseguire canzoni alla cui composizione non si ha contribuito in un concerto di quella portata non meriterebbe nemmeno di essere ricordato. Certo, mi piace raccontarlo come vanto perché non siamo in tanti che possiamo prenderci un tale merito. Ma ora, allo scadere dei vent’anni da quell’esibizione, anzi vent’anni e un giorno, sono pronto a dequalificare l’esperienza, a darle il suo giusto peso, a metterla in archivio con il suo giusto valore. La musica andrebbe suonata solo quando viene da dentro, quando è una cosa intima, quando una canzone l’hai vista crescere come un figlio, quando ci sono pezzi di te sullo spartito o nelle parole. Tutto il resto, e mi perdonino i mestieranti, ne è solo una volgare imitazione.
Così non rimane che suonare nella propria cameretta. Credo siano pochi i professionisti che se Lo possono permettere. Comunque, anche se ridimensionata , rimane un’esperienza eccezionale e certo rata salire su quel palco
Penso che tu abbia raccontato alla perfezione questa esperienza, poi la vita ci porta a fare anche altre cose rispetto a quello che desideravamo e comunque davvero non è da tutti una partecipazione così.
penso di condividere in parte il tuo pensiero, anche se non sono una musicista professionista e non ho suonato su palchi del genere.
resta un’esperienza notevole.
anche se la musica è altro, o può essere altro, o può essere entrambe le cose.
Io non la dequalificherei. All’epoca avrebbe potuto essere un bel trampolino. Non lo è stato, ok, ma questo lo hai saputo dopo, non prima. E ora il concerto del primo maggio lascia un po’ a desiderare, allora magari era qualcosa di più, no?