Basta un titolo di qualcosa che ricordi un caposaldo dei nostri riferimenti culturali del calibro di Jeeg Robot che subito si abbattono tutte le nostre barriere dietro le quali facciamo finta di essere grandi e grossi e corriamo al cinema seguendo un richiamo evocativo di un’infanzia che come l’abbiamo avuta noi e un paio di generazioni prima e dopo probabilmente non ha eguali nella storia. Magari per i mocciosi di oggi è ancora meglio, ma onestamente, visto come sono messe le cose, non possiamo promettere a nessuno che il loro domani sarà tutto sommato luminoso come è stato il nostro. Pensate a quante cose hanno acquisito dignità culturale da quando ci siamo noi nella stanza dei bottoni a decidere quello che deve piacere o meno, a scegliere la musica per questo e quello spot, a influenzare i gusti altrui. Alcuni ci accusano di aver dato fondo alle risorse che il pianeta da sempre riserva al ricambio generazionale proprio perché abbiamo protratto la nostra età evolutiva oltre i limiti consentiti e, appunto, a cinquant’anni siamo ancora qui ad andare in brodo di giuggiole per i cartoni giapponesi o a struggerci dal dolore per questa o quella star del rock che, raggiunta una certa età, decide di togliere il disturbo. Il mio encomio va quindi agli inventori di Jeeg o di Goldrake e a tutto il cinema di animazione giapponese degli anni 70 se è riuscito a uniformare le passioni di un’intera civiltà occidentale come non si vedeva dai tempi di Gianburrasca o del libro Cuore. Probabilmente è a causa dell’immortalità dei loro protagonisti, che alla fine con un’alabarda spaziale o con un raggio fotonico se la cavano sempre egregiamente, che ci siamo convinti di poter sopravvivere a tutto e tutti, che solo perché proteggiamo il mondo ci spetta di diritto la riconoscenza dei posteri e che la vita è solo una successione di episodi con una sigla iniziale e finale in grado di indurre persino gruppi musicali creati ad hoc a celebrare in eterno come degli inni alla vita che non finisce mai.