acronimo per Test of English as a Foreign Language

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Il mio livello di inglese è lo stesso di quando la Motti (la mia prof del liceo) metteva i dischi nel laboratorio di lingue (si, proprio i dischi) con il suo tremore che la rendeva un’antesignana dello scratch e gli alunni erano tenuti a portarsi un registratore personale a cassetta (si, proprio a cassetta) a scuola per registrare i dialoghi dei dischi direttamente dal banco. Nel senso che allora avevo persino preso un dieci, ma poi oltre quelle rudimentali regole di grammatica non sono mai andato. Le lingue le eserciti se sei appassionato, se ti trasferisci a Londra o negli States, se lavori nelle multinazionali, questo per dire che i dischi di David Bowie anche se sono di una bellezza commovente non bastano. Dovrei migliorarmi, e me lo dico ogni volta che mi trovo davanti a Google Translate perché devo rendere qualche frase di effetto dall’italiano all’inglese, e poi mi viene da piangere perché in inglese l’effetto non c’è più. Una cosa è tradurre, una cosa è fare il copywriter in una lingua che non è la tua, che già è difficile farlo in italiano. Proprio ieri mi sono barcamenato in alcuni passaggi di consecutio temporum resi nell’idioma della perfida Albione (una locuzione spregiativa che mi fa rabbrividire da tanto è usata a sproposito ma ero a corto di sinonimi) grazie all’Internet, ma ero più sereno perché erano destinati a gente che ne sa poco più di me. Poi è successa una cosa curiosa: uscito dal lavoro, alla stazione delle Nord dove aspetto il passante ferroviario per tornare a casa per la prima volta hanno annunciato i treni anche in inglese. Ho pensato subito a una Milano finalmente internazionale grazie a Expo, se non fosse che a quasi un mese dalla fine della manifestazione, per quanto il vecchio modo di dire “meglio tardi che mai” interpreti perfettamente la saggezza popolare, avere delle migliorie di questo tipo fa un po’ sorridere. Ma la sorpresa è durata il tempo di interrompere la lettura in cui ero immerso per rientrare nel pieno della storia, un libro di un autore americano tradotto da una delle mie traduttrici preferite che è Silvia Pareschi, che poi è la traduttrice ufficiale di Jonathan Franzen. Mi capita di riflettere sul fatto che leggendo solo libri e vedendo per la maggior parte solo film nordamericani probabilmente le persone più influenti della mia vita sono i traduttori. Il libro in questione si intitola “Fine missione” ed è di Phil Klay. Una serie di racconti di esperienza diretta durante la guerra in Iraq che ti prendono di brutto e se non stai attento ti fanno salire sul treno per Novara anche se devi andare da tutt’altra parte, ma forse a me è successo perché l’annuncio l’hanno trasmesso in inglese e mica l’ho capito.

Un pensiero su “acronimo per Test of English as a Foreign Language

  1. Io e l’inglese non abbiamo rapporti. La scuoka mi ha insegnato solo il francese e tutta l’approssimazione del termine “insegnato” l’ho riscoperta nel recente viaggio a Parigi. Lì, sulla RER, gli annunci li facevano in tre lingue: idioma locale, inglese e spagnolo. Grazie a un mix tra i tre sono riuscita a scendere al volo per cambiare treno e arrivare all’aereoporto… Che mica mi sarebbe dispiaciuto poi perdere l’aereo

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