La maledizione che si abbatte su molti gruppetti più o meno dilettanti di musica leggera decretandone la fine, molto spesso in modo provvidenziale se non addirittura mettendo al riparo i componenti dal severo riscontro del pubblico, li aveva logorati a tal punto da mandare tutti i piani all’aria malgrado la presenza di segnali confortanti. Ma pensate a quanti torti si sono consumati dentro alle mura di cantine e box adibiti a sala prova, con ragazze che interrompono duraturi rapporti con chitarristi per mettersi con i cantanti o viceversa. Chi non si è mai trovato coinvolto in crisi artistiche di questo tipo scagli il primo plettro. Questo poi molto ma molto prima dei social network e anche di Internet, quindi in un mondo in cui i giochi si svolgevano alla luce del sole, anzi, al buio delle mura insonorizzate ma comunque in carne e ossa e con i tempi tecnici necessari per spostamenti, telefonate, attese, discussioni verbali, chiarimenti, risoluzioni di conti a ceffoni, drammi, bugie, segreti detti e divulgati con sussurri per non farsi sentire. Giorni, settimane, mesi di struggimenti e turbamenti. Altro che whatsapp. C’era anche una specie di gruppo rivale che ha approfittato di quel tragico scioglimento cannibalizzando i membri non interessati dalle dinamiche sentimentali, solitamente batteristi e bassisti badano al sodo, i tastieristi – lo so per esperienza diretta – sono sempre degli outsider, fatto sta che non erano nemmeno iniziati gli anni 80 che una delle promesse del post punk locale si era già dimostrata bella che impossibile da mantenersi.
Ieri poi, per puro caso, mi è capitato di vedere “Una fragile armonia”, un filmetto strappalacrime del 2012 che dovreste vedere anche voi intanto perché ha come protagonista Philip Seymour Hoffman e poi perché c’è tanta bella musica classica. La storia si basa infatti sulle dinamiche di un quartetto d’archi di successo composto da una coppia marito e moglie, in cui il marito che è il secondo violino (Hoffman) sentendosi sminuito si porta a letto una ballerina di flamenco. Dal primo violino che è uno scapolone che si innamora della figlia dei due suoi colleghi malgrado la differenza di età (di lui era stata innamorata anche la moglie di Hoffman prima di sposarsi). E dal violoncellista interpretato da Christopher Walken che è costretto a mollare il colpo a causa del Parkinson e che però segue con sofferenza tutte queste dinamiche che minacciano di far esplodere l’ensemble prima del tempo, ovvero prima che lui lasci il suo posto per l’impossibilità di reggere l’archetto.
Ma, lasciando perdere ogni spoiler, mentre il film si avviava alla fine mi si è accesa una lampadina su come scrivere una storia sulla band a cui mi riferivo sopra. Sentite qui. Trascorsi quarant’anni dal loro scioglimento, il chitarrista manifesta i primi segni di Alzheimer e così il cantante, in forma di redenzione per avergli fatto perdere l’amore, contatta gli altri ex membri per rimettere in piedi il gruppo. Hanni tutti quasi settant’anni ma nessuno non riesce a sottrarsi al fascino della musica, a riprendersi gli strumenti un po’ malandati lasciati in cantina o alla mercé dei nipotini, a rimettersi a suonare gli stessi pezzi di allora, il tutto per seguire da vicino e a modo loro il decorso del loro vecchio sodale e con tutti gli annessi e connessi di un’esperienza del genere. I due ex rivali non hanno del tutto smaltito gli antichi rancori, il cantante così cerca di sfruttare i momenti in cui la demenza senile lascia il chitarrista vergine circa il loro rapporto e privo di trascorsi. Ci starebbe anche bene un risvolto sul successo, in un momento di povertà artistica generalizzata – siamo più o meno nel 2025 – una band di vecchietti che calca con grinta post punk il palcoscenico, e un finale strappalacrime, tipo che il chitarrista si dimentica di prender parte all’appuntamento decisivo con il pubblico e manda tutto in vacca ma per il resto del gruppo non importa, a loro serviva solo per allietare gli ultimi anni dell’amico malato e va bene così. Ecco. Ora ci penso su e poi vi dico come va.