Il più alto in grado tra i due agenti della Guardia di Finanza – non chiedetemi la scala gerarchica o un qualunque punto di riferimento per misurare l’importanza in contesto militare – gli chiede cosa c’è nella cassa da morto. Che cosa trasporta in quella specie di bara nera tumulata sulla cappelliera. Il collega mi invita cortesemente a farmi da parte, ad accomodarmi nel corridoio del convoglio, nemmeno loro fossero artificieri e il mio compagno di viaggio, casualmente assegnato al posto di fronte al mio da un sistema di prenotazione ferroviaria spesso vituperato sia da viaggiatori sporadici che da quelli che perseverano nelle soluzioni di viaggio attraverso il trasporto pubblico, stesse compiendo il mio stesso tragitto accompagnato da una carica di tritolo o da uno di quegli avanzi di bombardamento alleato che ogni tanto giovani coppie alle prese con le ristrutturazioni di case d’epoca lasciate in eredità dai nonni trovano nelle soffitte, abbandonate da antenati guerrafondai o semplicemente affetti da feticismo bellico. E mi spiace di non avere colto subito le intenzioni delle forze dell’ordine, è l’alba e non sono granché in forma, altrimenti avrei garantito io per quel tipo sospetto. La forma e le dimensioni non lasciano dubbi. Lì dentro non c’è un cadavere ma uno di quei sintetizzatori a cinque ottave con cui i tastieristi – e io scusate ma penso proprio di avere voce in capitolo – si spaccano la schiena per raggiungere sale prove o locali da concerto. E sì, lo so che sarebbe molto più comodo muoversi in macchina con quel peso, ma non dimenticatevi della gente spiantata e squattrinata che comunque, anche senza due o quattro ruote sotto al culo, ha necessità di spostarsi. Il dubbio al massimo è capire come diamine abbia fatto l’esile musicista a poggiarla là sopra, immaginate un parallelepipedo di circa 150*60*25 cm, calcolate pure il volume se vi occorre ai fini della comprensione del testo. Ma i due agenti si offrono di dare un’occhiata senza far calare giù il feretro. Il più agile sale con un piede sul mio sedile e immediatamente mi sovviene di avere ancora un paio di fazzoletti di carta per pulire la forma della suola prima di rimettermi a posto. Clic clac, solleva il coperchio, scende e, visibilmente soddisfatto, dice al giovane tastierista che è tutto a posto ma di non diventare come Riccardo Cocciante perché non gli piace. Ora dovrei cercare di risistemare la situazione, almeno qui in questo contesto narrativo, perché posso capire l’associazione di idee “tasti bianchi e neri” con “Celeste nostalgia” che ha come denomitatore unico il pianoforte. Ma, nel duemila e rotti, l’autore di alcuni dei momenti principali della canzone d’amore italiana non dico sia già caduto nell’oblio – avrà anche una certa età, il poveretto – ma non venitemi a dire che si tratta di un interprete ancora sulla cresta dell’onda. Senza contare il fatto che, qualunque sia il modello di sintetizzatore in viaggio con me, Cocciante era un pianista, e con l’elettronica vintage c’entra ben poco. Quindi ometto qualsiasi commento perché il bello deve ancora venire. L’agente da quella posizione elevata nota la ragazza molto interessante seduta dietro. Concordo nel giudizio, anche se purtroppo è intenta nella lettura di una dozzinale biografia su un altrettanto dozzinale Jim Morrison. I due, che malgrado la divisa sono giovanotti nel fiore degli anni, si vede che si scambiano uno sguardo come a cercare l’uno nell’altro un modo per attaccare bottone. Magari il libro sui Doors potrebbe avere le pagine ricavate da una mistura di canapa indiana, penso io, ma oggi non sono in vena di suggerimenti di abbordaggio romantico.
He he ha… Scusa, ma mi immagino la scena