il peso della narrativa e la leggerezza dell’essere

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A differenza dei nativi digitali e degli invecchiati analogici, io che sono uno zoticone ignorante degno rappresentante dei cresciuti catodici ho avuto poca dimestichezza da ragazzo con la lettura, trascurata rispetto a media tiepidi come i fumetti, più caldi come dischi e musicassette, se non roventi come, appunto, la tv. Quindi almeno fino ai venti anni abbondanti mi sono dedicato più che altro alla narrativa che il palinsesto educativo imponeva, mi riferisco doveri scolastici che portavo a compimento solo per meri fini valutativi. Così uno dei primi libri che ho letto di mia volontà è stato “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, ma solo perché era un best seller, una moda molto anni ottanta, insomma. L’antesignano di tanti successi letterari paragonabili alle code per l’iPhone 6 e, come sovente accade, ampiamente sopravvalutato e obbrobriosamente commerciale.

Ma, giudizi sommari a parte, lego solo al libro di Milan Kundera la prima sensazione provata di una sterile trama che si consuma muovendo il peso del supporto cartaceo non rilegato dalla parte destra, pagina dopo pagina, verso la parte sinistra. Gli spessori dell’una e dell’altra che variano in misura inversamente proporzionale man mano che si avvicina la fine e la lettura, in tutto questo, come una cosa a sé, un ambiente in cui uno abituato a ben altre più pigre esperienze – come ero io ai tempi – riesce a muoversi solo tenendosi ben stretto a una balaustra a ridosso della narrazione, un supporto utile a darsi lo slancio per fuggire, alla minima distrazione, da questa parte del libro.

Ma la cosa sorprendente consiste nella sorpresa finale, la quarta di copertina che mi ha indotto a una riflessione a grandi linee riassumibile in una sola domanda: e ora che me ne faccio? Perché la finalità dei Pavese, dei Pirandello e di un Manzoni stesso appresi perché parte di un programma di studi fornivano comunque una serie di crediti fittizi per ottenere il pass finale al futuro, una sorta di raccolta di bollini per un’offerta speciale di opportunità professionali successive. Ma quell’Adelphi azzurro acquistato e passato in rassegna perché “usava”, che cosa ha lasciato a parte lo sforzo di portarlo a termine e l’illustrazione della nudità femminile in copertina? E voi, qual è stato il primo libro – narrativa per ragazzi a parte, perché ha avuto più influenza “I ragazzi della via Pal” nella mia vita che qualsiasi altra opera letteraria – che avete scelto di leggere in autonomia, al di fuori dalla lista dei suggerimenti della prof. di Italiano? E che cosa vi ha lasciato?

22 pensieri su “il peso della narrativa e la leggerezza dell’essere

  1. MrPotts

    Il primo che ricordo distintamente è stato “Il giorno più lungo” di Cornelius Ryan, sullo sbarco in Normandia. Mi fu molto utile, quella prima lettura, per i miei giochi con i soldatini.

  2. Ecco, io Kundera non l’ho mai letto.
    Il primo libro letto in autonomia? Tra i miei primi acquisti i libri di Freud, te le ricordi le edizioni Bollati e Boringhieri con la copertina in bianco e nero?
    Avevo 14 anni, sinceramente non sono tanto sicura di averci capito tanto allora, però in quel periodo ne ho letti una serie e li compravo con grande interesse…alla libreria di Stefano di Piazza Fontane Marose che adesso non esiste più.
    Abbracci, buona giornata Plus!

  3. Ecco, questa è una buona domanda…mi intrigava tantissimo, soprattutto in quei testi dedicati ai bambini e alle giovani donne. Non lo so, forse era un tentativo di capire il mondo…cosa complicata, eh? Pure adesso ho le mie difficoltà in proposito.

  4. Ricordo il primo romanzo “da grandi”, a quattordici anni precisi, “L’estate in cui Fletcher Greel mi amò”. Non un capolavoro letterario, ma ben scritto, e malinconico e critico e descrittivo di quel mito sempreverde e sempre drammatico, a suo modo, che è il sud degli Stati Uniti. Ricordo la mamma di un’amichetta a cui lo prestai correre a casa mia gridando allo scandalo contro mia madre (“xe tutto sesso”). E mamma leggerlo per verificare e commuoversi alla fine, come me, perché probabilmente qualche elemento solidale alla nostra biografia familiare, lì dentro, c’era. Il primo libro da grandi, davvero.

  5. Esagero se dico la Divina Commedia? Letta a 11 anni, in estate, tutta d’un fiato: mi ha lasciato la sensazione che la letteratura possa tutto, il che pavento sia vero.

  6. Il nome della rosa è stato anche il mio primo romanzo, all’incirca 15 anni dopo! L’ho riletto diverse volte.
    Le prime 80/100 pagine sono un po’ ostiche, ma superate quelle è tutto piacere.

  7. Immagino, stiamo parlando di Umberto Eco, mica paglia. Posso immaginare il piacere di quella lettura, una lettura adulta e profonda, vi ammiro voi che ce l’avete fatta. Prima o poi ci riproverò.

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