Sostiene mia moglie che qui è tutto progettato per farci lavorare e basta, una tesi che condivido in pieno e non solo perché entrambi siamo reduci da qualche giorno di vacanza trascorso a Roma. Non siamo certo i primi a trovare nell’urbanistica di Milano e della sua area metropolitana i segni di quello che siamo o, meglio, di quello che ci hanno fatto diventare, se vogliamo abbandonarci a qualche impeto di sano complottismo da inizio settimana. L’opinione in auge mette il confronto tra le due città sui piani competitivi innescati dalle rispettive eccellenze, la regolarità del nord contro la grande bellezza della capitale. Ed è proprio insita in questo dualismo la chiave di lettura di uno sviluppo psicosociale degli abitanti di un territorio.
Il nostro immolarci al reddito non ammette evasioni se non quelle programmate dall’ordine economico di cui facciamo parte, vero? Pianifichiamo viaggi, weekend altrove, gitarelle a questa o quella cascina bio-vegan-dellanonna, alimentiamo il nostro fabbisogno salutista in circoli sportivi, campi sintetici a noleggio o palestre e piscine gioiosamente asettiche, circoscriviamo le attività necessarie al sostentamento fisico e intellettuale in complessi pensati ad hoc per concentrare al massimo in un unico luogo l’uso della carta di credito.
Immaginiamo così questi aspetti delle nostre vite come nodi di una rete di collegamenti mutui, naturalmente privi di marciapiedi o se presenti lasciati in abbandono e di piste ciclabili e unicamente carrabili, intasati nelle ore di punta benché a più corsie e con tutti i limiti di velocità e autovelox del caso. Ecco, negli interstizi di queste maglie abbiamo costruito ambienti volutamente lineari, sicuramente imposti dall’andamento pianeggiante del territorio, ma con l’obiettivo più o meno inconscio di generare il minor impatto possibile sulla nostra abnegazione al lavoro.
Voglio dire, il mio amico Giorgio che vive a Roma all’atto di muoversi da casa per lavoro o nel corso di qualsiasi spostamento urbano attraversa ponti con statue imperiali, passa di fronte a terme, anfiteatri, chiese romaniche, resti millenari di tutte le culture che si sono avvicendate nell’urbe, e poi il Foro Italico, il Palazzaccio, il Lungotevere, viale della Conciliazione con in fondo San Pietro. Si tratta di una complessità urbanistica portata all’eccesso, lo so, Roma è una città irripetibile, per nostra fortuna. Tutte cose a cui magari poi ci fai l’abitudine e che a chi è lì in vacanza sembrano straordinarie, dovrebbe essere così che ce la raccontiamo quando imbocchiamo l’uscita dell’autostrada a Cormano.
Ma anche spogliando la nostra vista dal valore aggiunto dell’arte e dell’architettura, è questa regolarità che ci condanna a non uscire mai da quel tracciato fatto di nodi e di percorsi obbligati che li interconnettono, perché gli spazi sono fatti apposta per passare inosservati con i condomini a basso impatto energetico, le strade curate e prive di contenitori della spazzatura, i cani al guinzaglio e i loro padroni al telefono, i bambini che pedalano in bici su percorsi testati per riportarli a casa senza un graffio. Un sistema che funziona a tal punto che visto da altri punti di vista potrebbe sembrare un plastico, una riproduzione in scala di qualcosa, un presepe vivente, persino un episodio di Ai confini della realtà.
Così sono giunto alla conclusione che dovrebbe essere istituito un listino, un prezzario, una tassa di soggiorno che aumenta con la bellezza del posto in cui vivi che non deve essere corrisposta in denaro, altrimenti sapete come va a finire, e nemmeno con il merito perché, diciamocelo, la meritocrazia ha già rotto il cazzo. I posti-vita dovrebbero essere assegnati secondo sensibilità, indole, animo, attitudine alla riflessione sulla bellezza, senso estetico, nozioni di storia, postumi da sindrome di Stendhal. Se poi a uno piace solo guadagnare e non gli interessa dove farlo, sono pronto a dargli il benvenuto qui, nell’hinterland milanese.
I posti-vita dovrebbero essere assegnati secondo sensibilità, indole, animo, attitudine alla riflessione sulla bellezza, senso estetico, nozioni di storia, postumi da sindrome di Stendhal.
Bellissimo e condivisibile questo post.
E io resto in quella piccola provinciale posata sul mare, va bene così per me. Ciao Plus!
Ci sarebbe un bel rimescolamento residenziale se l’assegnazione dei “posti” dovesse seguire i tuoi criteri. E certo un giudice super partis magari riserverebbe delle sorprese per qualcuno che si vedrebbe catapultato da luoghi ameni a palazzi di periferia o viceversa. E magari i più fortunati che non hanno mai dato peso a quello che li circonda, capirebbero cosa hanno perso e altri, intenti solo alla rassegnazione della sopravvivenza quotidiana, scoprirebbero che si può avere di meglio. La condizione peggiore è quella di chi invece lo sa, ma non può farci nulla. Di mio mi guardo bene dal lamentarmi che se all’appartamento in condominio preferirei la casa colonica in campagna, vivo pur sempre circondata dai campi.
Oh come hai colto, mio caro, l’animo di chi l’altra città, quella a sud, la sceglie. E mi piace ciò che dici sulla possibilità di uscire dai tracciati, che è forse ciò che è concesso in modo considerevole anche a chi al lungotevere ci passa una volta al mese, e a Torpignattara tutte le mattine. L’acquedotto c’è anche lì, poi, ma di certo i cassonetti si vedono eccome. Comunque il ragionamento sul cambio di residenza e il diritto alla bellezza si era fatto anche qui, e mi trova molto d’accordo.
Comunque Genova resta una perfetta via di mezzo.
be’ ma lì da te non fate testo. Vieni nell’hinterland milanese, poi ne parliamo.
Torpignattara comunque miglior nome di quartiere di tutti i tempi
L’unico problema è il genere di cronaca che vi è correlata 😉