Tutto è iniziato quando, qualche mese fa, ho messo un cucchiaino di zucchero nel caffè, io che l’ho sempre bevuto amaro, e ho scoperto che non era poi così male sentire la densità nera e bollente scivolare lungo la lingua lasciando strascichi di quella dolcezza che allappa. Un piccolo rifugio dalle asperità della vita, una consolazione almeno dentro di me di tutto quello che poteva essere ostile là fuori. Un manto immaginario sotto cui rifugiarmi per riscoprire un microcosmo di appagamento interiore. Un compromesso con il passato: amaro è bello, lo diciamo anche per il cioccolato fondente, ma poi di nascosto ci strafoghiamo di quello al latte o, sacrilegio, di quello bianco.
Poi è stata la volta dell’acqua con le bollicine, io che rigorosamente l’acqua deve essere naturale e per non parlare di quella bauscia delle ferrarelle che non è né arte né parte. D’altronde era nell’aria. La birra, con il suo spirito frizzante, è l’unica bevanda che mi placa realmente la sete senza quell’illusorietà propria delle bevande dolci gassate che appagano nell’immediato ma poi, come tutte le sostanze che danno dipendenza, spinge a volerne sempre di più, ancora di più, senza smettere mai e tutto quello zucchero che ti entra dentro chissà dove va a depositarsi. E l’acqua con le bolle, lo sanno anche i bambini, no magari i bambini no perché si presume non bevano birra, ne unisce il potere lenitivo con l’innocuità trasparente dell’acqua, quindi perché non dovrebbe essere meglio. Così, al bar, per cercare ristoro dal caldo e soddisfare il bisogno di liquidi che in estate lo dice anche Studio Aperto, ecco che mi vedo fare il cenno di no con la testa alla domanda “naturale?”, ho persino imparato a pronunciare perfettamente sparkly quando sono all’estero, che per loro è comunque la norma e chissà che margini hanno, con quello che ce la fanno pagare.
C’è stato anche il caso dei bocchettoni dell’aria condizionata sulla macchina indirizzati altrove, tutto quel gettito di fresco artificiale sparato a manetta contro parti ben circoscritte del proprio corpo, di cui a un certo punto della vita si inizia a percepirne la forzatura come una qualunque componente imposta dalla modernità. Dapprima facendo finta di nulla, dopo ostentando pure tutto il fastidio del caso trovandomi nella condizione di passeggero e non di autista, ho iniziato a spegnere gli impianti, ruotare rotelle, occludere aperture, puntare altrove l’erogazione fottendomene se quel flusso tutt’altro che salutare recasse disagio a qualcun altro. Mors tua vita mea.
La vecchiaia si manifesta anche in piccoli trascurabili episodi come questi, quelli che non l’avresti mai detto, #eppure. Non è tanto il calo della vista, quello del desiderio, spostarsi più o meno impercettibilmente su posizioni moderate se non addirittura a destra, odiare tutto e tutti, osservare con meraviglia il calo dei freni inibitori nella formulazione pubblica dei propri giudizi, la radicalizzazione di certe posizioni, l’impeto di rifuggire da qualunque cosa faccia perdere tempo come un Jep Gambardella qualsiasi.
L’età avanza erodendo gradualmente piccoli spazi alla propria personalità consolidata, smuovendo anche gli elementi più solidi di certe sfaccettature del quotidiano come il tempo tinge gradualmente di bianco le teste e tutte le altre pelurie del corpo. Probabilmente un giorno chiunque stia affrontando questa parte del viaggio, guardandosi riflesso, non si riconoscerà più. Meglio disseminare tracce di quello che è stato, nascondere biglietti al proprio sé che subentrerà domani per abilitare la possibilità di sorprendersi ritrovandoli in un poi, dedicare risorse all’organizzazione del proprio vissuto allo stesso modo in cui disponiamo le provviste in dispensa. Ed ecco che la casa, la tana, il rifugio, improvvisamente ma mica tanto acquista un significato senza precedenti. Come a dire che saremo qui e per sempre, sul nostro divano, seduti al nostro scrittoio, sdraiati nel nostro letto. Meglio abituarcisi.
Di biglietti ne dissemini parecchi in questi post. Ecco, io vorrei anche offrirti una birra virtuale, anche se non la bevo, vado ad acqua liscia e non zucchero il caffè. Però qualche pelo bianco si insinua tra i capelli e mi sa che tra qualche tempo ji verrà utile rikeggere i tuoi biglietti, oltre ai miei
il mio lo si può definire un tracollo, ma d’altronde che ci si può fare?