Il calcio ce lo immaginiamo giocato nelle favelas brasiliane da potenziali grandi campioni a piedi nudi fino a quando la realtà romanzata si scontra con quella dei risultati sul campo. È la distorsione delle cose che ci impone la cultura che abbiamo appreso nel periodo delle assimilazioni selvagge, che per noi ha coinciso con un’epoca fatta appunto di Pelé e di Rivelino ma anche di tante altre cose che non esistono più come gli indiani, i cowboy e i pirati che se li proponi ai ragazzini di oggi ne cercano subito una versione in 3D ma solo per far piacere ai loro genitori. Stesso discorso per i Beatles, i maggiolini tutti matti e altre cianfrusaglie da rigattiere. Il calcio tedesco è una fedele rappresentazione del presente e il sette a uno inflitto al Brasile, che a noi può sembrare il vilipendio di un cadavere sportivo, a chi è libero da gabbie culturali è un risultato eccezionale ma non comporta nulla di sacrilego. Non so se mi spiego, e considerate che sono uno che di calcio non ci capisce un cazzo, ma mi piaceva questo spunto di attualità per scrivere di pregiudizi. Essere sudamericanocentrici ai mondiali ti impedisce di apprezzare l’evoluzione di una tradizione sportiva – quella della Germania – sempre agli apici ma a volte poco simpatica, e solo per i trascorsi storici. Così come essere milanocentrici per altre attività ti fa perdere il contatto con un modo di intendere alcune professioni che invece le fanno ovunque ma uno pensa che ci siano solo qui. Il marketing lo fanno anche in provincia di Belluno, la grafica nel Salento, il design nel ragusano, la comunicazione aziendale nei vicoli di qualche borgo marinaresco della Liguria, i video alle porte di Perugia. Anzi, magari fanno tutto meglio. Il mondo del pallone non è una provincia di Rio de Janeiro, l’Italia non è solo hinterland milanese. E questo l’ho dovuto scrivere solo come mio promemoria.
Un gran bel promemoria
un mega post-it