Fabrizio, l’ho incontrato per caso nel vano di accesso agli ascensori, non lo vedevo credo da quando mi aveva invitato a una delle sue esibizioni con il suo socio. Tutti e due vestiti da Gypsy Kings a suonare in piedi, e con i piedi negli stivali da gaucho, tutti quegli infiniti medley da ballare secernendo latinità – non quella dei romani antichi ma quella degli spagnoli moderni – mista a sudore, strusciandosi con cani e porci per lo schifo di entrambi. Una verve così istrionica non autorizza a porre però domande a rischio. Chiedere che cosa ci faccio qui e siamo all’ingresso di un ospedale è una formula che deve contemplare una gamma di risposte da paura. E malgrado mi sia preparato per tutta la durata del viaggio da Milano a qui nel fornire dichiarazioni di circostanza, c’è qualcosa che prende il sopravvento nel sistema che gestisce le convenzioni interpersonali, tanto che fulmino Fabrizio con un “c’è mio padre che sta morendo al quarto piano” proferito tutto di pancia, una cosa brutta lo so, ma so anche che non può che fargli bene. Colpirne uno per educarne cento. Diciamo no alle domande superflue. Ma poi me ne pento quasi subito, di certo gli ho rovinato la giornata e sono sicuro che la prossima volta si nasconderà dietro qualunque cosa pur di non salutarmi. Avrei fatto meglio a glissare. C’è mio padre che non sta bene, si è aggravato, oppure tentare con un generico è ricoverato e basta. Fabrizio è lì con sua mamma e un po’ lo invidio perché ha qualche anno in meno di me ed è primogenito, per cui ha genitori tutto sommato giovani ed è appena stato a trovare suo papà che ha una cosa da niente e in qualche giorno tornerà a casa. Io ho qualche anno in più e sono l’ultimo di tre figli, per questo ho addirittura un genitore ottantacinquenne in fin di vita anche se non si dice così. Io vado di fretta, non c’è davvero tempo da perdere, sono stato chiamato con urgenza dai miei famigliari e mi sono precipitato al capezzale e non vorrei certo mancare all’appuntamento con la morte per interposta persona a causa di uno che suonava una versione salsa di “Nel blu dipinto di blu”. Fabrizio alla fine si congeda stringendomi la mano e mi dice in bocca al lupo. Già. L’ascensore arriva e non so quello che mi aspetta.
Niente domande superflue, ma un abbraccio te lo mando.
Ti abbraccio fortissimo
(un abbraccio anche da qua)
Un abbraccio grandissimo, caro Plus.
🙁
grazie a tutti, ora posso scriverlo più serenamente