Il sistema informatizzato da sanità 2.0 per la gestione delle code in ambulatorio, che consiste in una specie di caramella polo in legno dell’anteguerra del diametro di un bottone impilata in uno spuntone di ferro e recante su una faccia, impresso a penna in una calligrafia in linea con gli standard dei dottori, il numero progressivo di attesa per la visita, mi attesta tra gli ultimi a esser ricevuti. Mi sono classificato in sedicesima posizione subito dopo uno che fisicamente potrebbe essere il modello da cui è stato disegnato Carl Fredricksen, il protagonista di Up. Trascorre il tempo prima del suo turno a consultare una risma di impegnative per visite mediche, ognuna con un foglietto pinzato su, in perenne lotta con gli spessi occhiali da vista che gli scivolano giù da la fronte e che continua a tirare su per leggere bene da vicino, come fanno tutti quelli che posizionano i fogli a pochi millimetri dalla pupilla nuda. Tiene tutto in una borsa di quelle che una volta regalavano le agenzie di viaggio in occasione delle gite organizzate in pullman, una foggia a metà tra il borsello e lo stile sportivo, in finta pelle. Alla fine rimaniamo noi due soli, siamo gli ultimi dopo la badante ucraina che è appena entrata nello studio tutta fiera della sua residenza appena ottenuta. L’anziano signore, comunque piuttosto distinto, a quel punto inizia a commentare le sue carte ad alta voce. La frequenza con cui si reca in bagno tradisce un problema alla prostata. Poi si rimette al suo posto e va avanti nel suo soliloquio. Poteva iniziare prima, penso, perché ha cominciato proprio ora che ci sono solo io a doverlo ascoltare. Nomi di medicine, diagnosi, terapie, qualche parolaccia. Ed è lì che ammetto che anch’io ho sempre più voglia di parlare da solo, camminare per le strade e parlare da solo e il bello è che non ci vedo proprio niente di male. Ma non come fanno i matti che dicono cose strampalate, imprecano e spremono il loro volto per far crescere il valore semantico del loro vaneggiare e spaventano le persone. Io il lume della ragione non l’ho ancora perso. Quindi voglio andare in giro e parlare da solo e dire cose sensate. Non so che cosa ci trattenga dal farlo e quanto ci costi, in termini di equilibrio, tutto questo autocontrollo. Perché la convenzione sociale impone che parlare da soli per la strada è una cosa che non si fa e che suscita ilarità. Anche io, come il paziente di fronte a me che si sta agitando sempre più, si conferma da solo che alla sera si sente sempre un po’ peggio, ho tante cose da dire. Chiacchierare in autonomia libera poi dalla necessità di ascoltare i pareri altrui e dall’educazione di non interrompere nessuno. Sentirsi in questi monologhi a senso unico, una volta superato l’imbarazzo del silenzio intorno a sé, è anche un buon metodo per stare più a proprio agio. Quando viene il suo turno, la sala d’attesa piomba nella calma che la sacralità di quel luogo impone. Dalle stampe appese alle pareti, illustrazioni di soldati vestiti dalle uniformi degli eserciti del passato hanno l’aria di essere rimaste immobili solo per non far spaventare di più gli esseri umani seduti ciascuno con il proprio disturbo. Io ho solo la massima a 140 e me lo dico ad alta voce, così, per provare l’effetto che fa, potrebbe essere l’inizio di qualcosa di nuovo.
Un proficuo dialogo con se stessi ha molti vantaggi. Io lo applico al lavoro, solitamente per imprecare se qualcosa non va, ma anche per esultare quando “i conti tornano”. Per ovviare a possibili critiche in caso di soliloquio urbano, proporrei di infilare gli auricolari per generare il dubbio della conversazione telefonica.
è la mia arma segreta con cui mi tolgo non poche soddisfazioni
ho scritto proficuo con la Q!!!!! Mamma mia…
ora non si vede più ed è come se non fosse successo 😉