Certo. E come vuoi che stiano? Stanno come tutte le coppie di anziani soli nelle quali c’è uno che ha una malattia tipo l’Alzheimer che non è reversibile – mi fanno notare – e preparati che non può che peggiorare. Stanno come tutti i genitori anziani che hanno avuto per decenni la casa piena zeppa di persone, di drammi e di successi tra figli, amici dei figli, parenti, visitatori occasionali, e poi subentra la diaspora che leggiamo nei libri degli scrittori americani con le loro saghe famigliari e i ragazzi che studiano in posti che l’equivalente qui da noi è andare a fare l’università in Estonia. Là da loro ci sono abituati e così madre e padre, che sono ancora giovani, si comprano una casa in Florida. Qui il fuggi fuggi dei figli è invece verso le città e il lavoro, ed è un fattore che svuota le vite fino ai nipoti che ti vengono a trovare solo nelle feste comandate, prima che anche loro abbiamo una loro vita in uno spazio a margine e così i gradi di separazione – quella vera – diventano tre e le maglie troppo larghe per garantire una rete resistente. Stanno soli e non è facile immaginare come trascorrano il tempo, almeno chi con la testa c’è ancora che non sai mai se è meglio o peggio rendersi conto di questa forma di abbandono sociale. O forse no, non siamo in grado di immaginarlo perché anzi l’essere lasciati in pace con il chiasso in cui siamo sommersi è l’equivalente dell’isola semi-deserta dei Caraibi. La vecchiaia è un parco vacanze fatto di malattie, di difficoltà deambulatorie, di orari scanditi dalle medicine, di pannoloni e di poltrone automatiche per tirarsi su senza cadere per terra. Esauriti gli obblighi che ci hanno fiaccato una vita intera, quel lavorare, educare, supportare e creare la base altrui per spiccare il volo, ci ritiriamo come veterani reduci da una guerra che non si sa mai se è stata vinta o persa o ics. Quindi come vuoi che stiano. Stanno bene, questo è quello che ti dicono al telefono. Poi tornano a coricarsi, a completare cruciverba alla luce dell’abat-jour, un gatto vecchio quanto loro accoccolato ai piedi, con la voglia di richiamarti subito e dirti la verità o, per lo meno, quello che ti aspetta.
Ecco, mi sono commossa. Ti mando un abbraccio.
Ti invidio un po’. Perché non ho genitori che rientrano in questo stereotipo. Mio padre non c’è più, mia madre la chiamo la #pg, se uso l’hashtag, che sta per Perfida Genitrice. Ci ho scritto dei post sui discutibili, ché quelli del mio blog vanno su fb e non si sa chi può leggerli e magari riferirglieli. Lei non mi dice che sta bene. Lei mi dice esattamente cosa mi aspetterà. Lei non chiama mai, aspetta di essere chiamata. Lei è sempre al centro dell’universo, lo è sempre stata e non si è mai spostata. Se le racconti che sei stato nella città X lei ti interrompe per dirti a) quanto le sarebbe piaciuto andarci ma non è stato possibile oppure b) quanto era bella quando c’è stata lei. Ma non per condividere, Per essere al centro. E transeat se lo fa con me. Ma lo fa con le mie figlie. Con i flgli di mia sorella. 26, 24, 20 e 17 anni. Che ovviamente scappano. Sono scappati appena hanno potuto.
Sii contento. Ché i tuoi hanno in testa il tuo bene, ancora. E ti dicono che stanno bene.
Lo so, ci sono un sacco di figli messi peggio di me. La domenica è il giorno del senso di colpa festivo, quello che non si può consumare perché siamo a 200 km di distanza e ci sono sempre mille cose da fare e che trascorro con i parenti acquisiti, secondo strato di sensi di colpa. Loro laggiù da soli, mio padre che perde lucidità giorno dopo giorno, la vita in un mausoleo del passato che non c’è più. Peccato.
Se fossi tua madre vorrei poterlo legegre, questo pezzo. E credo mi ripagherebbe. E credo mi placherebbe.
un saluto e un abbraccio…
“Stanno bene, questo è quello che ti dicono al telefono…. con la voglia di richiamarti subito e dirti la verità o, per lo meno, quello che ti aspetta.”
penso che le farò una stampa di questo e altre cose che ho scritto per loro a breve, finché siamo in tempo
grazie 🙂