la compagnia dell’anello

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Il comandante in capo era uno di quegli energumeni un po’ grossolani che si vantano di non riuscire a indossare monili alle dita né tanto meno al polso o al collo, adducendo come scusa cose come i gonfiori dovuti alla circolazione o leggende metropolitane con protagonisti che erano rimasti vittime di tragedie rare quanto audaci, roba come amputazioni dovute a bracciali o catenine rimaste agganciate a sporgenze che erano state fatali. L’esempio noto a tutti, e riportato fedelmente, la madre di Profondo Rosso strozzata dalla catena al collo impigliata nell’ascensore.

La cosa comica è che lui poi aveva addirittura rischiato di morire decapitato in motorino, non aveva visto un cavo steso sotto un ponteggio vietato ai pedoni proprio perché ad altezza pericolosa, e con l’intento di mettere in mostra le sue doti di slalomista trial tra i tubi innocenti l’aveva preso in pieno all’altezza del pomo d’adamo. Teneva però l’anello della ragazza a cui era legato da anni appeso a una collana che gli batteva sul petto quando ballava e quando si tuffava dagli scogli più alti levando ampi spruzzi, soddisfatto di rientrare nei parametri di un’applicazione letterale del principio di Archimede.

I ranghi femminili del resto della truppa erano composti invece da soldati che, dell’anello, avevano fatto usi differenti. Le più opportuniste avevano venduto quelli realmente preziosi, una volta riconquistata o subita la condizione di singletudine o la versione moderna sintetizzata nella celebre espressione da socialcosi “it’s complicated”, in qualche centro compro oro di cui la periferia era disseminata. Le più scaltre avevano addirittura saltato i passaggi intermedi rivolgendosi direttamente a pusher intraprendenti, ottenendo in cambio cospicui quantitativi di droghe leggere, la maggior parte delle quali andata poi sprecata per una inadeguata conservazione fuori dalla carta stagnola di ordinanza o dalla pellicola trasparente ad alto tasso di sgamo.

C’era poi la squadra delle romantiche che invece, complice il materiale scadente di cui era composto il suggello della promessa d’amore testé andata in fumo, questa volta nel senso proprio e legale del termine, aveva votato per la soluzione finale con l’anello scagliato nella fiumara ad alto tasso di pantegane e zanzare dall’alto del ponticello del parchetto, quello che nel giro di qualche anno si sarebbe riempito di lucchetti di qualità economica, nemmeno il loro quartiere dormitorio fosse Venezia e quello sotto il Canal Grande.

Tutti i soldati semplici maschi al servizio delle adepte della compagnia dell’anello sapevano comunque che si trattava di una spesa inutile per un oggetto dal valore intrinseco ampiamente sovradimensionato, sia che si trattasse di una patacca in argento da bigiotteria, sia che la scelta cadesse obbligatoriamente su modelli in metallo per personalità particolarmente alternative che delle pietre preziose o dei materiali costosi, rientranti nell’ordinarietà dei rapporti sentimentali standard, non sapevano che farsene, e sia che la convenzione imponesse invece acquisti all’altezza della considerazione estetica in cui, la persona destinataria del dono, fosse tenuta dalla moltitudine. Malgrado ciò arrivava il momento in cui a tutti toccava di comprarlo, magari con una certa vergogna per dover mostrare a commesse navigate la propria inesperienza nell’accostamento di oggetti a persone durante la prova della scelta conto terzi. Ma solo immaginarne la conseguente ostentazione con orgoglio leniva ogni ferita da sacrificio preparatorio.

Chiudevano le fila quelli senza speranza, a cui era successo solo sporadicamente di essere in prima linea ma troppo tempo indietro, un’esperienza poco edificante di cui restava solo un marchio beffardo, la striscia bianca dove prima stava l’anello sull’anulare ancora abbronzato dall’estate precedente, per lo più persone che lo avevano sfoggiato a lungo sotto il sole e che, ora, erano sole e basta.

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