Non potete pretendere la nostra tolleranza verso gli stranieri considerando che veniamo da una provincia che ha visto il primo ristorante cinese aprire a metà anni 80 e solo nello stesso periodo i primi venditori ambulanti africani sulle spiagge. Noi usi solo al suono dei cognomi tipici della zona, gli stessi a cui sono intitolate le strade e quelli che pronunciavamo per chiamare il dottore, il direttore della filiale della banca, il marmista del cimitero, il benzinaio. Nella frazione da cui proviene mio padre si chiamano tutti come me, per dire, tanto che la prima cosa che ho fatto sull’Internet è stata quella di cercare i miei omonimi in tutto il mondo. Per il resto, famiglie inglesi non si erano mai viste, per esempio, non essendoci fabbriche di automobili come quelle della pianura dove venivano ingaggiati manager americani che arrivavano con mogli e figli che poi andavano a fare gli spacconi con i ragazzini della superata borghesia locale. Da noi al massimo c’era qualche bambino, non più di due o tre in una scuola pubblica di un quartiere popolare, con il cognome francese che attirava la curiosità di tutti. Erano persino invidiati i loro compagni di classe che potevano beneficiare di feste in case di persone di altre nazionalità, storie che si leggevano nel sussidiario o in qualche telefilm per ragazzi. C’era un gioielliere rampollo di una antica famiglia ebraica ma dalle origini provenzali che vantava l’insegna della bottega nella piazza principale a tre vetrine. Il figlio, sempre con il golfino a vu e alla camicia, sfoggiava un taglio troppo moderno per le frangette e i sorrisi sdentati delle foto ricordo a fine anno scolastico. Ve li elencherei tutti qui i franco-italiani o italo-francesi che mi hanno messo in soggezione nella mia vita se non fosse per un problema di privacy. Il fisico perfetto e il look da manichino della Rinascente che da noi non c’era nemmeno, al massimo arrivava la Standa e il Carrefour non era stato ancora inventato. Sarà per questo che quando incontro persone dal cognome francese, ancora adesso, riesco a cogliere sempre tutti i segni dell’aristocrazia pre-giacobina che in qualche modo è riuscita a sfuggire alle ire terzostatiste della rivoluzione. Quadri del Decathlon mandati a colonizzare la nostra grande distribuzione disorganizzata. Intere dinastie dalle bionde chiome alsaziane con quella pelle che i raggi terroni del mediterraneo non osano scalfire nemmeno nella canicola ferragostana che spazzano via i ferramenta dai centri abitati a colpi di Castorama e Leroy Merlin. Persone apparentemente normali che mi aspetto rivendichino prima o poi il loro castello sulla Loira o qualche appartamento di lusso nell’Île de la Cité da utilizzare come base logistica per un futuro radioso dei propri figli lungo carriere universitarie alla Sorbona. In Vespa per le strade i Parigi. Noi, che al massimo possiamo aspirare alla facoltà di legge a Pavia da raggiungere con i treni delle ferrovie Nord.