Considerate anche il fattore “congestionamento” o “sovraesposizione”, che come i fantasmini che ci consentono di indossare calze in estate senza vergognarci del nostro disagio con l’acquetta nelle scarpe chiuse e relativi miasmi, è uno dei peggiori mali della società odierna. Probabilmente la nostra vita infatti era più lunga quando seguiva l’apertura e la chiusura di fasi naturali o imposte per convenzione, non trovate? Si aspettavano mesi prima del ritorno di qualcosa o qualcuno, e in quelle settimane in cui il qualcosa o il qualcuno oggetto della mancanza non era presente si faceva altro fino a quando quel qualcosa o quel qualcuno riprendeva o si riproponeva e noi eravamo liberi di essere felici, o di essere delusi perché l’attesa aveva idealizzato gli aspetti che più volevamo fossero sempre a nostra disposizione ma, avveratosi il desiderio, non coincideva più. Un programma televisivo o un fidanzato sotto le armi, per esempio. Le tendenze fashion dell’inverno che sarà o il campionato di calcio. E, nel piccolo, il turno di chiusura di un negozio che ci costringeva ad aspettare il lunedì successivo per concludere l’acquisto, aumentando così il piacere della conquista di ciò di cui avevamo bisogno.
Lo voglio qui e lo voglio subito, dicevano più o meno così i post-epicurei della modernità, ma il problema dell’avere tutto a portata di mano sempre e ovunque è un altro paio di maniche perché stempera il valore delle cose. Lo so che la mia è una visione nostalgica e romantica – e anche un po’ retorica – ma di questi tempi in cui le cose non è che proprio siano esaltanti, prendere riferimenti antichi induce a rassicurarci e consolarci che un altro mondo era possibile.
Le spremute di emozioni sono utili a ottenere guadagni e consensi nell’immediato, per questo siamo bombardati di buoni propositi e offerte all-inclusive, mentre altrove si preparano ben altri tipi di incursioni armate, ma c’è un comune denominatore che è quello di ragionare come se non ci fosse un domani. Mai. E viene da pensare che anni di catastrofismo e complottismo ci abbiamo ormai assuefatti a non andare oltre la generazione cui apparteniamo anche se c’è chi, come me, si è pure moltiplicato. In questo presente condensato di futuro prossimo sarebbe quindi buona cosa mettere da parte un po’ di provviste – in senso lato – per i nostri figli e la loro progenie, e non solo dal punto di vista della sostenibilità o delle risorse naturali. C’è per esempio questo approccio alla virtualizzazione che ci sta abituando ad avere tutto sempre appresso pur senza portarci dietro nulla, non so se mi state seguendo. Un intero vocabolario globale senza nemmeno un volume in cartella. Un sapere enciclopedico pur privi di un rimorchio per trascinarne il peso. Liberi da vincoli ci sentiamo anche esenti da responsabilità, tanto in caso di emergenza c’è sempre Google.
Ma senza andare così addentro al digitale, pensavo a quanto i bambini di oggi siano i primi ad avere così tanto materiale e documentazione riguardo ai loro primissimi anni di vita. A come cambia la memoria del genere umano, quindi, se a sette o otto anni si ricordano di persone e fatti di quando ne avevano tre o quattro perché i genitori hanno gli hard disk pieni zeppi di foto e video. O ancora gli adulti che hanno la possibilità di vedersi tutti gli episodi di un serial in un fine settimana, magari rincoglionendosi un po’, anziché attendere sette giorni o l’inverno dopo, quando le nuove puntate andranno in onda. Con la conseguenza che il mercato continua a produrre e noi a divorare tutto all’istante in una sfrenata bulimia contenutistica. Eppure in giro non si vede nessuno più gonfio di emozioni del dovuto, anzi. A dirla tutta si vedono solo espressioni un po’ ebeti. A partire dalla mia, eh.