Devo essere sincero. Io Jannacci – come del resto Gaber e vi prego di non inorridire – non me lo sono mai filato più di tanto. Principalmente perché un po’ non lo capivo, faceva canzoni troppo sottili e intelligenti per quelli come me, quindi potete immaginare quando ero ragazzino e lui era uno degli esponenti di punta di una cultura che i pischelli a tutti costi aborrivano perché distante dalla voglia di rottura che veniva dall’estero. Voglio dire, oltre all’ignoranza c’erano anche i pregiudizi esponenziali. Una volta mi sono preso pure un cazziatone da un amico intellettuale perché ho confuso con Paolo Conte (idem con patate) la paternità di una canzone, ma non ricordo quale. Quindi a parte i pezzi più stranoti perché disponibili a profusione grazie a canali incrociati e mi riferisco all’Armando, alla fetta di limone nel tè, alla vita l’è bela, al secchio che fa rima con l’orecchio e all’irriverente sa l’ha vist cus’è sono arrivato a scoprire il resto, come molte altre cose da grandi come un certo jazz e una certa letteratura, solo da adulto. Non sono un esperto come molti di quelli che stanno a ragione coccodrillando l’Internet in queste ore, quindi non posterò nessun tributo a ricordo dell’artista scomparso, anzi non pubblicherò nemmeno queste righe. Scherzo. Mi spiace molto anche per un altro pezzo di novecento che se ne va, di cose con cui sono cresciute le generazioni addietro, di quell’Italia in bianco e nero e di periferia lontana dagli strass di mediaset e dalle stelle grillesche che oggi va in onda dopo mezzanotte, su Rai Storia.
Ma non è tutto. Ho un amico musicista che ha suonato con il figlio di Jannacci, e la cosa divertente è che nel periodo di quella collaborazione invece io ero stato contattato dal figlio di un cantante genovese che era stato lambito dal successo alla fine degli anni 50 grazie a un singolo beat, una vera una tantum dopo la quale era tornato giustamente nell’oblio da cui proveniva. Suo figlio mi aveva telefonato a casa, il beat ormai non esisteva e forse era stato appena messo in commercio il telefono Sirio a pulsanti che, da un punto di vista estetico, era meglio nasconderlo nel cassetto del mobile in corridoio vicino all’unica presa tripolare. Durante la conversazione ce l’aveva messa tutta per convincermi a far parte della band che avrebbe accompagnato il rilancio della carriera del padre. Si era però scusato per il pressing dicendo una cosa tipo “sai com’è per i figli di grandi artisti”. No, io non lo so com’è perché mio papà è un contabile in pensione. E chissà perché, dopo aver rifiutato e abbassato la cornetta ho subito pensato al mio amico che stava facendo strada con la sua batteria e al figlio di Jannacci che lo aveva contattato. Ma non volevo parlare di me a tutti i costi, ma di lui, di Enzo, con il quale poi l’amico batterista ha pure collaborato. A mia nonna non piaceva Jannacci, diceva che gli sembrava sempre ubriaco ma non fa testo, lei canticchiava le hit storpiando le parole, come in “Luna” di Gianni Togni diceva “E guardo un mondo da un gloglò”. E poi la mia di origine non è una famiglia di milanesi, e secondo me certe cose proprio non le possiamo capire.
Quando scrivi di musica…lo sai no? Ecco, anche questo post lascia il segno, come sempre.
A me Jannacci piaceva, è proprio un pezzo della nostra storia che se ne è andato.
Un abbraccio e Buona Pasqua, caro Plus.
Ti lascio come commento questo invito:
http://puronanovergine.blogspot.it/2013/03/lo-stetoscopio.html
Io cercavo di capirlo con lui cos’era essere figlio di milanese. Che poi la musica fa questo. E altro.
anche a me, è solo che quando si è giovani si è un po’ stupidini. Tutto qui.
grazie, vado a leggere
giusto, la musica ti fa arrivare dappertutto. Però, a dirla tutta, per la Roma di Califano invece ho perso proprio il treno e non ci sono mai arrivato.