trentamila lire l’uno

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Marco mi aveva chiamato persino in ufficio per chiedermi i soldi. “Non credi che il lavoro debba essere pagato?”, mi aveva sbraitato dall’altra parte della cornetta. E io che cercavo di calmarlo dandomi allo stesso tempo un contegno dinanzi alla mia responsabile, quella che era fidanzata con uno dei soci ma una volta l’avevo beccata mentre mi osservava in zona cerniera dei pantaloni perché indossavo un paio di jeans piuttosto aderenti e avevo capito come doveva sentirsi lei, con quel seno spropositato in un ambiente professionale ingegneristico e quasi tutto maschile. Era lei che mi aveva passato la telefonata. “È per te” mi aveva detto, un po’ seccata per via del fatto che non stava bene ricevere chiamate personali in orario di lavoro. I telefoni erano solo sulle scrivanie dei ruoli importanti, così mi ero ritrovato in piedi, al centro dell’open space, attirando l’attenzione di tutti. D’altra parte nemmeno io potevo immaginare che Marco mi avrebbe rintracciato lì, al massimo mi chiamavano i miei o la Betta, in quel periodo avevamo già chiuso per la terza volta ma ogni tanto capitava che ci sentivamo. Era una dei pochi a sapere dove lavoravo. A dirla tutta era una dei pochi con cui avevo contatti.

Così ero rimasto sorpreso a sentire la voce di Marco, e mentre gli dicevo cose come “va bene, ma per cortesia non chiamarmi più qui” mi guardavo in giro ostentando sicurezza e vedevo che qualche collega aveva capito l’antifona. Quello nuovo con i capelli così rossi da sembrare una carota che me lo sentivo con il fiato sul collo pronto a soffiarmi i progetti, che faceva il finto leale chiedendomi in prestito cd di musica elettronica che conoscevo solo io. Gli avevo proposto in vendita un expander che non usavo più, visto che la mia carriera da musicista era chiusa per sempre, e lui si era comportato con quel tipo di finta correttezza per dirmi che il prezzo era fuori mercato e che aveva visto uno stesso modello usato a trecentomila lire in meno, ma senza dirmi che non era più interessato, per far sì che mi sentissi in colpa di avergli proposto un affare sconveniente e per costringermi a riaprire la trattativa al ribasso.

Anche Jenny stava seguendo quella mia conversazione scomoda. Jenny non si capiva bene se fosse pagata o se fossero i suoi genitori a pagare lo studio per darle da fare qualcosa. L’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale l’avevano accompagnata in ufficio per portare in dono ai tre soci una pianta stagionale, un panettone di pasticceria e una bottiglia costosa. I tre soci si erano sentiti fortemente imbarazzati da questo sottile tentativo di corruzione emotiva. Far leva sulla gratitudine umana per ottenere in cambio un contratto a tempo indeterminato. Roba d’altri tempi.

Marco invece, la persona che mi stava giustamente intimando di saldare un debito anche se in un momento inopportuno, era stato per qualche mese il mio insegnante di jazz. Avevo interrotto le lezioni proprio a causa dell’impossibilità di pagarlo, era successo quasi un anno prima che trovassi quel lavoro con uno stipendio decente. Avevo lasciato sprofondare lentamente nell’oblio il nostro rapporto professionale e l’insolvenza derivante, forte di quell’implicito patto tra artisti in cui ci si paga quando si può perché comunque siamo tutti nella stessa barca che, prima o poi, affonda senza risparmiare nessuno. Lui però aveva studiato in America, forse per questo differiva da tutti gli altri e non intendeva certo lasciare conti aperti, tantomeno a suo svantaggio. In tasca avevo tre pezzi da cinquanta che avevo appena prelevato al bancomat, che più o meno coincidevano con le ultime lezioni che erano rimaste scoperte. Peraltro casa sua era a un tiro di schioppo dall’ufficio, e per tranquillizzarlo gli avevo dato appuntamento poco prima di pranzo per consegnarli la somma dovuta.

Ma più per sottrarmi da quell’occhio di bue imprevisto, mi ero convinto di chiudere quella storia di denaro ripensando a quanto mi imbestialivo quando facevo lo stesso mestiere di Marco o giù di lì e mi trovavo a lottare contro quelli che non pagavano. Un capo orchestra che divideva il cachet in ritardo di un giorno e tutti ci preoccupavamo già di come avere la nostra parte di quella che sarebbe stata l’ultima serata. Slittare di ventiquattr’ore ci avrebbe costretto a rivederci una volta in più del dovuto. Un’altra volta, invece, io che sono tutto fuorché una persona violenta, avevo persino minacciato di tornare con un po’ di gente a incendiare il locale se non avessimo ricevuto quanto pattuito. Il gestore ci stava dicendo che secondo lui non avevamo reso secondo quanto si aspettava. Io ribattevo facendogli notare che lui non avrebbe accettato che qualcuno, poco soddisfatto di un panino o di un piatto di penne, riducesse il conto a seconda di quello che poteva essere il gradimento della cena consumata. Ma alla fine non l’avevamo spuntata, aveva capito che la mia intimidazione era tutto un bluff.

Insomma, per farla breve nemmeno una mezz’ora dopo la telefonata in ufficio ho restituito quello che spettava al mio ex insegnante, un gesto che mi ha rimesso in pari con la sua stima e con la mia coscienza. Credo di aver chiuso così tutte le pendenze aperte tranne una. Avevo chiesto a un amico di acquistare per conto mio un paio di biglietti per un concerto dei Cure. E c’ero andato proprio con quella Betta con cui qualche volta, malgrado un passato sentimentale tormentato, anni dopo la tournée di Disintegration avevamo trovato un modo inaspettatamente civile di condividere la pausa pranzo con un panino sui gradoni di Palazzo Ducale. Ma a quel tizio, quello che mi ha comprato i biglietti del concerto, non so perché ma non gli ho mai restituito i soldi. Ecco, a parte questo caso, spero di non aver contratto nessun debito con voi. Ma, se pensate di sì e volete approfittarne, prima voglio vedere la ricevuta.

Un pensiero su “trentamila lire l’uno

  1. In altro ambito artistico, anche mio marito si é trovato a litigare con un l’organizzatrice di una serata perché, causa neve, invece di 100 persone ce n’erano 15. Dura la vita degli artisti

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