Qualcuno riaccende le luci, forse l’assistente che è rimasta in piedi all’ingresso, dove c’è l’interruttore. Quella non è né una sala riunioni né un’aula didattica, ma una stanza come tutte le altre, un po’ più grande e adatta a contenere venticinque barra trenta persone sedute, una tv di vecchia generazione con il videoregistratore collegato in scart e una specie di cattedra per chi deve tenere un discorso a un uditorio. Il neon fa i suoi bagliori introduttivi e lascia un po’ tutti delusi, dopo il buio con cui si è seguito il filmato che è appena terminato ci si aspettava un maggiore contrasto, colori più vivi, un surrogato della luce del sole più consono al mood, che dovrebbe essere pieno di speranze e ottimismo. Non a caso quello è uno dei pochi reparti di un ospedale in cui non si cura una malattia, non si guarisce da nulla. Nella maggior parte dei casi si entra e si esce comunque tutti in buona salute.
Ci si riappropria di quel chiarore approssimativo malgrado nessuno cerchi di condividere con il resto del pubblico un po’ di dissenso, stupore, paura e l’ignoto anche solo tramite un’alzata di sopracciglia o altre espressioni mute del volto. Nessuno è nemmeno in grado di capire se, a caldo, le riprese a cui quel gruppo di persone è stato spettatore possano essere categorizzate come film horror, commedia romantica, docufiction o che altro. Gli occhi si abituano alla luce e subentra la consapevolezza degli equilibri delicati da ripristinare. La sensibilità individuale e quella del partner al proprio fianco, la messa in discussione di quell’incontro collettivo programmato come elemento chiave del percorso, la violazione di una intimità alla quale nessuno in altre circostanze avrebbe rinunciato, la difficoltà di comprendere quale supporto morale la presa d’atto di una testimonianza concreta così realizzata possa recare.
L’audio poi, più che le immagini, è stato particolarmente forte, e non nel senso del livello del volume. Sentire le urla di dolore fisico della madre e i versi dovuti allo sforzo con cui esercitava le spinte. Le direttive dell’ostetrica e dell’infermiera che, intorno alla vasca, cercavano di tenere sotto controllo tempi e modalità di quel parto naturale in acqua. Il padre che alternava il ruolo di cameraman a quello di fornitore di supporto alla moglie, ora tenendola per mano e ora incitandola a portare a termine quel prodigio naturale che è la nascita di un essere vivente. Il gran finale, con lo zoom sulla creatura proiettata fuori, presa in consegna dall’equipe medica e indotta a salutare il mondo con un pianto esplosivo, coperto a tratti dai commenti disinibiti del papà con la bocca così vicina al microfono della telecamera. Il tutto senza titoli di coda, una colonna sonora, una fotografia adeguata. Ma lo scopo di aver mostrato quel video sul parto non è entertainment puro, come è facile immaginare. Il corso pre-parto comprende anche quell’esperienza necessaria quanto discutibile, un monito su quanto coinvolgerà quel gruppo di ascolto temporaneo inevitabilmente, di lì a poche settimane. Le primipare sembrano consapevoli di ciò che svilupperanno da sé per sopravvivere, i compagni si fanno domande. E il fatto che il filmato sia finito non risolve il problema. Proprio no.
posso lasciarti un sorriso?
Mi associo al sorriso per non dilungermi troppo
sei la benvenuta, riporta il buonumore su queste pagine
grazie cara.
Tanta tanta tenerezza 🙂