Chi scrive di tecnologia e affini come il sottoscritto avrà notato la diffusione che sta avendo il termine sociale e tutti i suoi derivati – socialmente, socializzazione, socialità – con una nuova accezione che ben si discosta dal significato originale. Ciò che è sociale non è più solo ciò che riguarda l’ambito della società, ma anche quello dei social media. Un aspetto che va oltre il processo di italianizzazione di vocaboli in lingua inglese per i quali i più, negli ultimi decenni, hanno manifestato perplessità, e che ha visto in modo pervasivo la diffusione di tecnicismi del marketing e dell’informatica nella nostra parlata quotidiana e il loro declinarsi e coniugarsi secondo i criteri grammaticali della lingua italiana. Una frase come “un unico ambiente socialmente integrato” che ho appena trascritto da un’intervista di lavoro, mi ha fatto riflettere perché in realtà significa “un unico ambiente applicativo in grado di favorire l’utilizzo e la diffusione di strumenti di social media”. Ovvero siamo pienamente nei margini della correttezza linguistica, non c’è nessuna storpiatura né neologismo evidente, ma solo un’evoluzione – o involuzione, vedete voi – di un insieme di parole legate a un concetto peraltro molto pesante, uno di quelli che è stato protagonista della storia degli ultimi secoli. A dimostrazione che, a parole, c’è ben poco di sacro. Così non ho problemi a parlare di “socialismo reale” riferito alla disponibilità di strumenti 2.0 senza distinzioni di classe, purché poi non si finisca con il dimenticarsi dell’archetipo e del suo significato originale. I lavori “socialmente utili” saranno quelli svolti dai moderatori delle pagine Facebook aziendali, e prima o poi un gruppo di punk filosovietico pubblicherà un album come “Socialismo e barbarie” come critica all’abuso dei social media e alla democratizzazione dei mezzi di marketing individuale. Io, nel mio piccolo, rifonderò il PSI per riunirvi tutti insieme in un unico movimento, fino a quando mi tirerete le monetine con giusto e meritato accanimento.