Non è stata una cosa successa da un giorno all’altro, ma è bastato distrarsi un attimo che la volta dopo tutti si erano messi a studiare jazz. Quello al piano si era fatto incantare da un chitarrista con l’anima del venditore della Folletto che si era piazzato nella sua vita approfittando del forfait dell’insegnante vero e proprio, un pianista compositore che era volato in Bulgaria a registrare la colonna sonora di un film. Il primo caso documentato di turismo musicale post-globalizzazione. Non solo dentisti e cuori solitari, quindi. Ma uno che suona uno strumento a corde può essere utile a uno che schiaccia tasti bianchi e neri? Sì, forse per l’armonia, lo studio delle scale che non si capisce mai come applicarle poi quando improvvisi.
Quello alla batteria pure, ed è stata la sua fortuna quella svolta lì, perché prima teneva il tempo ma poi quando era il suo turno nel solo o nei botta e risposta – chiedetemi se qualcosa non vi è chiaro, so che questi scritti sono un po’ da addetti ai lavori – dicevo quando doveva improvvisare lui senza altri strumenti partiva con esperimenti di free-jazz come se a fare gli anarchici fosse tutto concesso. Agli altri veniva da dirgli cose come “ragazzino” – era il più giovane di tutti – “ragazzino fai pure tutto il baccano che vuoi con quei tamburi e quei piatti ma poi rientra giusto alla fine del giro”. D’altronde le regole del gioco sono quelle, nel jazz bisogna saper contare. A me per esempio mi avevano insegnato a tenere il tempo con il piede sinistro, che tanto nel pianoforte non si usa nemmeno per i pedali, e come i batteristi tengono il due e il quattro con il charleston così era utile per quando veniva il turno degli altri negli assoli. Perché poi ti trovi strumentisti come quello lì che partiva in quarta e a cazzo e poi chi si è visto si è visto, perché nel jazz non si parla, non si fanno cenni tocca a te poi tocca a me, è tutto un feeling, tutto un sentire, tutta una vibrazione. Comunque dicevo del batterista che poi si è rimesso in carreggiata, perché a parlare son tutti Giulio Capiozzo con il senso del ritmo degli altri. Lui andava a lezione da uno che era fissato con l’acustica, teneva la sua Gretsch nel centro di una stanza in cui secondo lui si avvertiva l’acustica perfetta, calcolando l’equidistanza dalle pareti e la pedana che sollevando la grancassa si evitava quella dannata vibrazione della cordiera e poi, insomma, tutto questo per fare il gregario su standard così antichi che nemmeno nel dixieland.
Il chitarrista partiva ogni sabato mattina con la fidanzata, quello era il suo giorno libero in cui non era al lavoro, e si faceva un centinaio di chilometri per la lezione con un session man piuttosto noto, di quelli che li leggi nei programmi delle Scimmie o nei booklet di Paolo Conte, per dire. Il costo era salato, perché c’era la lezione ma anche la benzina e l’autostrada ogni volta ed erano botte di migliaia di lire. Credo che lei assistesse alle due ore, jam session compresa, e poi andassero insieme a pranzo fuori. Alla fine sono diventati due coppie di quelle che si frequentano nelle uscite in quattro, in cui le due ragazze camminano avanti parlando di appartamenti e colleghe e diete e i due maschi qualche metro indietro, sempre con questo disco o con quell’altro e poi la tromba che è insostituibile a meno di non trovare un trombone ma nessuno ormai lo suona più.
Ma il colpaccio lo aveva messo a segno il bassista, che aveva mollato tutto e tutti e si era iscritto a un conservatorio all’estero, una di quelle scuole che qui in Italia le fonderanno tra un paio di secoli quando il jazz avrà la stessa dignità delle compilation di quella classica da concerto di capodanno. Non il vero, quello di Vienna, ma quell’altro, quello farlocco che ci siamo inventati perché non siamo da meno, e tutti guardano ancora ciucchi della notte prima Va Pensiero e il resto della top ten delle ariette da amici della lirica in diretta dalla Fenice, giusto per la coda di paglia e questo nazionalismo da operetta per il quale se all’estero fanno una cosa noi siamo sicuramente in grado di farla meglio. Si vede. Il bassista è partito, dicevo, è stato tre anni via ed è tornato con un mentalità musicale che andava oltre qualsiasi diplomino di quelle scuole del cazzo che ci sono anche qui a Milano che poi all’esame ti fanno suonare con le nostre rockstar sessantenni e puoi caricare il video che fai le stesse svise che faceva Dino d’Autorio quando lo ascoltava il nonno. Tanto che quando è rientrato in Italia, lui era oltre ma tutti gli altri avevano nel frattempo interrotto lo studio del jazz. Chi non se lo poteva più permettere, chi comunque non gli sarebbe servito per le cose che aveva in testa e che avrebbe voluto fare, chi si era lasciato con la fidanzata e si trovava in imbarazzo a uscire da solo con una coppia in procinto di sposarsi.