Non sempre è la quantità di luce alla mattina e alla sera, l’avvicendarsi dei capi di abbigliamento in un armadio più comodo all’uso o il cambiamento di abitudini, a sancire il cambio di stagione. Passare le serate in un locale al chiuso quando fuori l’aria è mite, per esempio, è un segno molto più esplicito che ormai siamo fuori dall’inverno. Malgrado questo io e P. cercavamo di giustificare in qualche modo la nostra presenza lì, in fondo alla sala e appesi sugli sgabelli alti, quei modelli che ti fanno sentire volatili sui trespoli e ti inducono a posture esteticamente poco aggraziate. La gobba. Il boccale in una mano. Le noccioline nell’altra che poi che schifo, magari hai il palmo madido perché se fuori è primavera lì dentro sembrava di stare ai tropici.
Comunque niente sensi di colpa perché era proprio la serata conclusiva della stagione invernale, e a botte di una o due volte la settimana con rare punte di tre era facile calcolare il totale delle ore che, da novembre ad allora, io e P. avevamo trascorso facendo le stesse cose nello stesso posto ad ascoltare gli stessi gruppi che, a rotazione, suonavano lì. Che poi era un locale con un’acustica pessima perché era circolare con i soffitti molto alti, e non c’era verso di migliorare il suono né con l’impianto né cercando di diminuirne la volumetria con teli e pannelli. Ma era l’unico live club della zona quindi tutti se lo facevano andare bene.
Quella sera, una sorta di festa di chiusura, c’era una band che a me e a P. piaceva un sacco perché suonavano quella via di mezzo di folk, punk e reggae che ai tempi andava molto. Erano in metà di mille sul palco, con fisarmonica e fiati oltre agli strumenti elettrici, e il loro stesso nome era evocativo di una grande famiglia che si muove su un carrozzone a portare in giro sé stessi, il divertimento loro e quello da offrire al pubblico. Io e P. sapevamo a memoria la scaletta, qualche pezzo originale e molte canzoni celebri riarrangiate per quel blob caciarone.
Ma c’erano più elementi di rottura che stavano rendendo quella serata unica. P. aveva ripreso con quella roba che diceva di aver smesso di assumere. Io mi stavo rompendo di perdere tempo così, uno stato d’animo che tutti identificavano con il diventare grande ma non mi sembrava proprio, perché la voglia di cazzeggiare era tutt’altro che archiviata. L’aspetto a dare continuità con il passato, invece, era la birra. Le noccioline nelle mani sudate. Stare lì sullo sgabello a sentire il concerto, alzarsi solo per pogare i pezzi più divertenti, prendere un’altra birra e un’altra manciata di pistacchi.
Ma per salutare quella che poi è stata davvero l’ultima volta, la fine di un ciclo, e ce lo sentivamo tutti ma non ne riconscevamo ancora i sintomi, è stato il pezzo con cui il gruppo ha chiuso la serata. Punto, gioco, set, partita. Non era certo un brano di quelli che salti su e balli fino allo sfinimento, e malgrado l’innesto di strumenti non presenti nella versione originale, il ritmo e l’incipit stesso ci hanno meravigliato. Iniziava l’esecuzione di uno dei nostri pezzi preferiti, miei e di P., cioè “Biko”. Avete presente come inizia, vero? La parte di batteria che lo rende facile da distinguere in qualunque arrangiamento.
Così abbiamo cantato tutto il pezzo, mi piacerebbe dire ad occhi chiusi ma non credo perché ci piaceva anche guardare le ragazze che cantavano con noi. Poi alla fine di tutto, la fine del pezzo, del concerto, della birra e di quello che non sapevamo ancora, c’è stata la coda di “Biko”, con il coro da fare tutti insieme. I musicisti hanno terminato la canzone ma io e P. abbiamo continuato il coro, così l’hanno ripreso anche loro perché sono momenti da non lasciarsi sfuggire quelli, per uno che suona. Quando il pubblico interagisce bisogna domarlo, unirsi alla gente, amplificare l’esperienza collettiva. Hanno ripreso il coro e noi abbiamo continuato. Oh-oh-oooooooooh-oh, come citazione dei concerti di Peter Gabriel. Pian piano anche altri ci hanno seguito, in un finale ad libitum che sarebbe potuto continuare in eterno.
Il cantante così è sceso dal palco, è venuto da noi, ha preso me e P. per mano e qualcuno che era lì nei pressi e ci ha portato tra di loro, in mezzo agli strumenti. Tutti con il pugno alzato come a combattere contro qualcosa che non poteva essere la condizione di Stephen Biko perché era già morto, non poteva essere l’apartheid sudafricano perché, anche se da poco, eravamo già negli anni novanta. Fino a quando ci siamo stancati tutti, avevano già acceso le luci nel locale, i camerieri passavano frettolosi di chiudere la serata e tornare a casa con le loro torri di bicchieri impilati. I gusci delle noccioline per terra. Arrivederci al prossimo autunno.
Ma nessuno di tutti quei protagonisti si è rivisto, almeno non così. Il locale non ha più riaperto i battenti, non ricordo se non gli avevano rinnovato la licenza o i gestori hanno cambiato proprio attività lasciando i superstiti orfani di un ritrovo per ballare e suonare. Il cantante di quel gruppo pochi mesi dopo ha abbandonato quella band per accettare l’ingaggio cone front-man sostitutivo in uno dei complessi più famosi di pop italiano. Il cantante fondatore era mancato, il gruppo si era spaccato a metà e la parte che voleva continuare con un leader nuovo ha deciso di andare avanti puntando proprio su di lui, quello che ci aveva portato sul palco a fare il coro di Peter Gabriel. Questo P. non l’ha mai saputo. P. è morto un po’ prima, soffocato in casa da solo, pieno di quella roba che non era di qualità adeguata al prezzo che P. aveva di certo pagato. Anche io comunque avevo già pensato nel frattempo a una svolta, a qualcosa di più adatto alla nuova stagione che poi è iniziata davvero, di lì a poco.
A flower.
Me la ricordo bene questa canzone.
E quando si pensa a chi non c’è più è un po’ come tornare indietro, accanto a chi in qualche maniera c’è sempre, nella musica che si ascoltava insieme, ad esempio.
Li odio gli sgabelli così, non riesco a salirci, sono nana.
Ricirdo la canzone, gli anni novanta li ho lasciati alle spalle, gioiosamente direi e meno gioiosamente mi hanno lasciato amici che non li avevano presi nel verso giusto. Un bel post davvero.
io non sopporto le sedie senza schienale
🙂