Vedevo che non teneva gli occhi né sullo strumento tantomeno sullo spartito che avrebbe dovuto seguire per portare a termine la sua parte in quel brano complesso, e mi ero preoccupato non tanto per la struttura in sé quanto perché ci avevano chiesto la musica di “Ghost” e né io né lui la conoscevamo. Allora la titolare del negozio di moda del centro, che era l’organizzatrice di quella specie di sfilata per presentare la nuova collezione autunno-inverno, durante i preparativi ci aveva canticchiato la melodia e così ci era venuto in mente di che brano si trattasse. I musicisti con esperienza non hanno particolari problemi a riprodurre una canzone. Al momento del sound check avevamo deciso la tonalità e l’accompagnamento tra i preset della mia tastiera con il quale eseguirne la riduzione strumentale.
D’altronde quello era l’unico requisito specifico che ci era stato imposto, per il resto c’era la massima libertà. Potevamo eseguire a nostra discrezione qualunque brano ritmato dance conosciuto e il più in voga possibile, uno diverso per ogni abito presentato in passerella. Il solo vincolo era su quel vestito da cerimonia, ci voleva qualcosa di contestualizzato. Pur essendo entrambi espertissimi in musiche da matrimoni, l’organizzatrice ci aveva battuto sul tempo proponendo quella colonna sonora. Farsi sorprendere, in questi casi, costituisce un’insidia perché si corre il rischio di non conoscere il pezzo proposto. Lì più o meno era andata così, ma io avevo bluffato accennando in risposta l’omonimo brano dei Japan per far vedere che comunque non eravamo un duo musicale di sprovveduti, lei si era mostrata propositiva e con una punta di presunzione ci aveva suggerito l’aria corretta, che oggettivamente era impossibile non conoscere ma noi, che non eravamo avvezzi a quel tipo di cinema, non sapevamo che un pezzo così banale potesse essere persino la musica di un film.
Comunque durante la serata il mio socio in affari non sembrava per nulla concentrato, ed era facile capire il motivo. Ci avevano disposto a elle, l’uno perpendicolare all’altro, per motivi di spazio e in un punto strategico per poter supportare tempestivamente con i cambi e gli stacchi musicali le due indossatrici che si avvicendavano dentro e fuori dal salone Vip dell’albergo del centro, quello sotto i portici, di fronte ai chioschetti dove si pratica lo spaccio di sostanze stupefacenti più redditizio della città. Oltre la reception dell’hotel, però, vigeva un contrastante livello di sfarzo dedicato ai turisti che non entravano più ormai da mezzo secolo. Le camere erano meta di puttanieri e relative clienti, qualche russo in viaggio di affari – e chissà che affari – e rare comitive di passaggio, come i cliclisti in pellegrinaggio da Milano a Lourdes che avevano fatto tappa lì.
La sera della sfilata, io che facevo partire e mixavo le basi ero di fronte al pubblico e potevo passare da un pezzo all’altro quando vedevo le ragazze rientrare. Il rimanente cinquanta per cento del duo che suonava e cantava, e non doveva preoccuparsi di altro che fare il suo mestiere, era proprio in faccia ai camerini. Per questo dopo un po’ di gomitate e altri modi di attirare la mia attenzione ho capito che cosa lo mandasse in tilt. Dalla sua postazione si potevano vedere le due indossatrici spogliarsi e cambiarsi d’abito, volta per volta.
Qualcosa mi diceva che non era giusto approfittare di quella fuga di intimità, anche se forse in un contesto professionale è lecito valutare l’efficacia del workplace comune. Voglio dire: stiamo lavorando, devo essere pronto a dare il ritmo a qualcuno e quindi posso essere giustificato nell’attendere che il corpo di una che in quel momento è una collega sia regolarmente coperto, per partire con la mia parte che dev’essere perfetta per il corretto raggiungimento dell’obiettivo. Devo sincerarmi che la collega non sia ancora in mutande e nient’altro, altrimenti sbaglierei la tempistica e manderei all’aria lo sforzo di più persone.
E nell’unico istante in cui ho voluto sincerarmi che fosse davvero così, una delle indossatrici, quella che sembrava meno convinta di quello che stava facendo, mi ha beccato in pieno fulminandomi con il suo sguardo ed è lì che ho visto molto di più che una donna in mutande e nient’altro, seminuda per lavoro. Ho visto dove arrivava il mio diritto, che cosa mi era lecito fare, il confine della dignità altrui. Da quell’istante mi sono impegnato a non dare più nemmeno un’occhiata dietro le quinte di quel palco improvvisato, sperando che la ragazza che aveva colto in flagrante il mio essere fuori luogo potesse notare il mio pentimento celato da concentrazione sul mio ruolo, e nient’altro. Il mio socio musicista, dalla sua posizione privilegiata in cui non era nemmeno necessaria una rotazioni del collo ma bastava guardare solo davanti, non si è fatto invece molti problemi e ha continuato a godersi lo spettacolo.
Con la musica di “Ghost” di cui nessuno sembrava conoscerne il vero titolo ce la siamo cavata alla grande. Non so se è stato per quello, ma l’organizzatrice mentre ci pagava ci ha proposto un nuovo ingaggio. Poco dopo chiacchieravo con il presentatore, che era il dj di una radio locale, e lì ho visto con la coda dell’occhio il mio socio trattenersi con una delle ragazze, non quella con cui avevo fatto la figura di merda, ma l’altra. Li sentivo ridere, ho capito che stavano giocando a ricordarsi il colore delle mutande di entrambe. Credo che lui e lei siano anche usciti insieme per un po’ di tempo, ma potrei confondermi con qualcun altro.