in poco meno di centosessanta metri quadri

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Piaceva a tutti andare a casa di Vincenzo perché la condizione di autarchia che vigeva in quella famiglia era considerata una piacevole anomalia, un modo di vivere differente da ciò a cui si era abituati e si vedeva quotidianamente nei propri ambienti domestici. Solo lì ci si poteva rendere conto di cosa si potesse provare a essere figli in quei nuclei autosufficienti che ormai si vedevano solo nei film come “L’albero degli zoccoli”, o tra le mura di plastica dei Barbapapà o ancora nello stare appiccicati come facevano gli Ingalls, anche se ai tempi, nella prateria, c’erano ben altre complessità. E poi la casa di Vincenzo era sì un appartamento molto ampio, adatto a quella numerosa famiglia, ma si trovava nel centro di una città, al sesto piano – senza ascensore – di un ottocentesco edificio di edilizia popolare che probabilmente quando era stato costruito quella era periferia e anche abbastanza modesta.

A casa di Vincenzo il papà non era un travet da otto ore al dì dietro a una scrivania a far tornare conti per imprese a gestione famigliare. A dir la verità non si capiva bene che lavoro facesse, fatto sta che lo trovavi sempre in casa a fare il pane, o a sistemare mobili, a far ripetere la lezione alle bambine più piccole che frequentavano le elementari. Una volta però era stato visto litigare con animosità con il secondogenito, che era al liceo, non si sa bene per cosa, e a furia di spintoni il papà lo aveva messo fuori di casa e nessuno sa come era andata poi a finire. Andava a fare la scorta di carbone portandolo giù dalla soffitta, ubicata nel sottotetto, per alimentare la stufa – l’unica in tutto l’appartamento – posizionata in cucina e che costituiva l’unico elemento adatto al riscaldamento degli ambienti, oltre a svolgere la funzione di forno.

La mamma era un’ottima sarta, forse era brava a fare anche tutte le altre cose che le competevano a partire dalla preparazione della passata di pomodoro e varie conserve con cui affrontare l’inverno. Ma il pomeriggio lo trascorreva alla macchina da cucire a preparare i vestiti per tutti, adattando abiti smessi dai figli più grandi per quelli più piccoli, cucendo e rammendando quelli difettosi, ricamando tessuti ornamentali, soddisfacendo quindi l’intero fabbisogno degli abitanti di quella microsocietà. Poi interrompeva il suo lavoro per preparare la merenda per Vincenzo e i suoi amici, di là a giocare nella stanza dei divertimenti con le freccette, o con il ping pong, passatempi i cui componenti in legno principali come il bersaglio o il tavolo verde stesso erano stati costruiti dal papà che, manco a dirlo, era un eccezionale falegname.

La sorella maggiore di Vincenzo frequentava il Liceo Artistico ed era bravissima in ogni tipo di arte figurativa. Finiti i compiti, si metteva a riprodurre su fogli da disegno della dimensione di poster – quelli sì, li comprava – le copertine dei dischi che andavano per la maggiore in famiglia e che poi i suoi fratelli appendevano come manifesti sui muri delle loro camerette. Aveva ricopiato perfettamente in scala almeno tripla il ritratto di Bob Marley dell’album Uprising, ma così bene che sembrava una di quelle stampe che compravi nei negozi di articoli per fanatici della musica, solo che i dischi di Marley non è che fossero ancora così diffusi perché lui era ancora vivo e poi si ascoltavano altre cose, anche se oggi sembra che a tutti piacesse il reggae.

Ma quello che riscuoteva più ammirazione era il figlio maggiore, anche lui non si capiva bene che lavoro facesse ma solo che stava per un paio di settimane al mese all’estero. C’erano i detrattori che sostenevano fosse un marittimo qualunque, ma sembrava strano perché i marinai che conoscevamo prestavano servizio su navi commerciali e non andavano in posti per nulla attraenti, mentre lui faceva scalo in Inghilterra e in Germania. In più tornava dopo periodi non così lunghi, e ogni volta la sua collezione di cassette registrate aumentava di almeno un piano sullo scaffale della libreria in legno che gli aveva costruito suo padre su misura. E poi sembrava strano che i marinai ascoltassero roba così.

Anni dopo si è diffusa la notizia di come quella famiglia così chiusa su sé stessa, con l’accezione positiva del termine, diciamo composta da persone che tutto sommato si bastavano, sia esplosa. Tutti i fratelli sono finiti all’estero, addirittura Vincenzo è diventato uno chef di successo in Australia. E ancora i detrattori sostengono che si è trattato di un processo naturale, a furia di stare sempre in casa tra di loro si sono caricati come una molla e poi, appena possibile, si sono lanciati agli antipodi l’uno dall’altro. Io invece non la penso così, perché quando incontro i genitori e mi raccontano di Vincenzo capisco che la loro è stata tutta una strategia, l’aver fornito un modello efficace senza tempo di costruirsi il presente che poi non si guasta mai, e se al limite succede sei anche capace ad aggiustarlo da te.

2 pensieri su “in poco meno di centosessanta metri quadri

  1. Sei incredibile Plus. Ogni volta che clicco sul tuo blog, arrivo qui e c’è sempre un nuovo post da leggere. E che post, complimenti da Zena, hai descritto questo quadretto famigliare in maniera unica.
    Sempre più contenta di averti scoperto, devo dirtelo.
    Buona serata!

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