Ci sono le storie che terminano almeno dieci pagine prima della fine del libro, a cui segue un capitolo conclusivo che fa un po’ il punto della situazione, qualche anticipazione su quello che potrà succedere, magari un co-protagonista descritto nella sua vita dieci anni dopo, cose così. Questo finale diluito serve ad attutire il trauma del silenzio che segue quando dai l’ultima occhiata alla quarta di copertina e trai le tue, di conclusioni, ti senti scendere la vicenda giù come una bevanda calda quando fa freddo o viceversa, insomma senti tutto quel bolo di sensazioni che attecchiscono al tuo corpo come le sostanze che ti fanno ingrassare di più, solo che qui questo processo di assimilazione è in generale più piacevole anche se gli stati d’animo sono contraddittori. Perché, per esempio, passare il tempo a sentire le voci di altri su tematiche che già ci capovolgono con la loro carica deflagrante. Un po’ masochistico, ma siamo fatti così, che ci vuoi fare. E non è molto diverso quando il romanzo si chiude proprio con l’ultima parola, quella semi-coperta dal timbro della biblioteca, ma è troppo destabilizzante per i soggetti che soffrono di vertigine. Perché è un po’ come accompagnare il lettore su per le scale di uno di quei grattacieli in costruzione che si vedevano nelle comiche e nei cartoni. L’autore ti fa salire su, più su, più su ancora fino quando resta solo l’anima in ferro dell’edificio, gli ultimi piani da terminare, e proprio sulla soglia del punto più alto e più sporgente ti fa ciao ciao con la manina e si butta giù perché tanto ha un paracadute e poi comunque si tratta di una metafora quella lì, quindi tutto il resto non esiste se non la tua stabilità su quel pennone sporgente sul vuoto ed è un’impresa tornare indietro e salvarsi. Mica siamo tutti come gli operai carpentieri acrobati di quella celebre foto che fanno colazione sul niente. Se ne deduce che le migliori sono le trame che non si concludono, quei segmenti di vita altrui tagliati da un momento A a un momento B ed estratti dal loro contesto per la gioia di chi legge alla stregua di aprire la finestra e vedere quel che accade in strada. Personaggi che non sai da dove vengono né dove finiranno i loro giorni, perché terminato il tuo contributo voyeuristico rimetti quel blocco di materia narrativa al suo posto, in modo che la pagina uno e l’ultima coincidano perfettamente con un qualcosa prima e un qualcosa dopo che noi non potremo mai sapere. Proprio come riporre il libro al suo posto in un cofanetto immaginario di cui è disponibile però solamente un volume, quello lì che hai appena letto, tutti gli altri appena li prendi e li apri si trasformano in una risma di pagine bianche.
A me serve un capitolo finale che mi spieghi con calma tutto. O meglio: nei libri col colpo di scena mi serve. Perché se il libro si interrompe così, senza dare altre spiegazioni, o senza fornire informazioni su come continuerà la vita dei personaggi dopo l’ultima pagina, mi sento un po’ perso.
Però penso anche che a volte sentirmi perso è una sensazione che bisogna che io provi. Non si può vivere sempre nella sicurezza che tutto ci venga spiegato.
Mi piace molto come scrivi 🙂
A me piace farmi accompagnare dall’autore dove vuole, anche nel vuoto. Sono una buona saltatrice. Chiaro che se leggo una biografia senza la fine un po’ mi destabilizzo, ma un romanzo può lanciarmi nell’aria e lasciare a me il compito di galleggiare… ma a tutto c’è un limite; un finale, comunque, lo voglio.
A me piace perdermi nei libri, visto che nella vita devo rimanere sempre ben rintracciabile. E grazie per il tuo commento.
prova l’ebbrezza del voloooooooooooooooooooooo
Ti sei schiantato?
guarda, da quando poi ho letto “l’uomo che cade” di DeLillo la mia sofferenza per vertigini si è moltiplicata