È una delle prime affermazioni che mia figlia ha imparato a dire con convinzione perché addirittura all’asilo nido le educatrici hanno insegnato a lei e a suoi compagni a far valere così la volontà individuale in risposta ai soprusi dei coetanei. Fin dalla tenerissima età le linee guida sulla gestione della conflittualità interpersonale sono state molto chiare: non si deve spingere sull’acceleratore e rischiare la deriva violenta. Se qualcuno cerca di rubare la palla, dà uno spintone, fa una pernacchia, canzona uno scivolone altrui o altre angherie del genere, la vittima, anziché reagire con altrettanta veemenza , deve opporsi solamente con la propria convinzione verbale. “Non voglio!”. Nessuno strattone, nessuna resistenza, mani e piedi a posto, lingua e parolacce a freno, ma solo la certezza nello sguardo e in due laconiche parole che nessuno potrà fare qualcosa a cui si è contrari. “Non voglio!”.
E ciò mandava in estasi noi neo-genitori perché vedevamo crescere l’autopercezione e la difesa dei propri spazi in quelle piccole creature alle prese con le prime esperienze nel gruppo dei pari. Pronti a giocare insieme, a ritagliarsi i momenti di decompressione in solitudine, ad accettare o imporre regole e a dire di no quando lo si trovava appropriato. Il “non voglio” suonava come una parola magica, un incantesimo grazie al quale i nostri figli potevano attivare una sorta di barriera protettiva secondo circostanza, un superpotere contro il prossimo in quella parte della giornata che proprio a causa dell’organizzazione della vita di noi grandi gli si imponeva di trascorrere separatamente e sfuggiva al nostro controllo.
Il “non voglio” poteva fare un po’ le veci di un nostro intervento risolutore, anche se è sbagliatissimo – e lo dicono tutti i manuali sulla corretta genitorialità – essere di parte nelle diatribe infantili soprattutto se la parte è la stessa dei propri figli. Per esempio, e lo so che qui rischio l’ostracismo da parte dei blogger che trattano argomenti legati all’educazione e dei bravi papà imparziali, a me è capitato di entrare di corsa in un parchetto giochi perché un piccoletto tedesco stava spingendo con arroganza mia figlia che all’epoca aveva si e no tre anni e vedere mia figlia cadere nella sabbia ai piedi di uno scivolo in plastica aveva toccato profondamente il mio orgoglio. E l’ho rimproverato duramente, quel crucco in miniatura – che tanto non mi avrà capito – visto che i suoi genitori, che come me si godevano le bellezze della Corsica, non avevano manifestato nessuna intenzione di dirimere il conflitto. Non si danno gli spintoni, non te l’ha insegnato nessuno? Tuo bisnonno chissà quanti ne ha fucilati dei nostri, quando metteva a ferro e fuoco le nostre campagne in cerca di quelli che volevano cacciarlo e che lui chiamava banditi? Ed è inutile che ora fate tanto quelli che salvano gli stati europei come il nostro con l’acqua alla gola, siete sempre i prepotenti di un tempo, voi e i vostri campi di concentramento. Ecco, non gli ho detto proprio così ma il mio tono riassumeva uno stato d’animo frutto di anni di antifascismo militante. E comunque mia figlia non aveva nemmeno pianto, si era alzata un po’ imbronciata più per il vestitino impolverato e la cosa era finita lì, e anche se al piccolo turista tedesco ha detto “non voglio” prima che la strattonasse a terra probabilmente il nostro Hans o come si sarà chiamato non avrà capito o probabilmente avrà intuito che mia figlia non ne voleva sapere di cedergli il posto sul cavallo a molla o quel che era.
Comunque, il vero problema dell’imparare a non volere fin dalla tenera età è che poi è un meccanismo difficile da gestire. Voglio dire, se per le educatrici del nido è un passepartout per responsabilizzare i bimbi sull’autogestione dei comportamenti sopra le righe, se è una formula magica per far salire di livello la personalità individuale, bene, sarebbe però il caso di dotare i genitori della contro-formula, l’antidoto superiore grazie al quale il “non voglio” può essere annullato. Questo perché poi, crescendo, il non volere condividere una macchinina diventa il non volere cose sempre più grandi e non volerle con un una volontà sempre più ferrea e adeguata all’età, soprattutto al di fuori delle mura scolastiche. Che poi diventa difficile da superare e che costringe a continui compromessi per condurre il proprio mini-avversario nei paraggi dell’obiettivo. Così ti aggiri per gli spazi presidiati da bambini e ragazzini ed è tutto un “non voglio” fare questo o quello, una massa in ribellione alle minime regole degli adulti che quando la creatura si aggira verso i sette-otto-nove anni ci si trova a rimpiangere quei bei tempi in cui a tavola volavano scappellotti e si poteva inseguire la prole con il battipanni per metter fine con la forza a ogni questione lasciata a metà. Ma questo è il prezzo che si paga se si vuole vedere i propri figli già cittadini attivi prima ancora che imparino a scrivere il loro nome o qualunque desiderio sulla letterina a Gesù Bambino. Spetta a noi, di queste nuove dinamiche famigliari, trovare la giusta collocazione e il modo di usarle a nostro vantaggio. Sempre che sia possibile.
Trovo che i “non voglio” detto ai prepotenti sia cosa diversa da quello detto ai genitori che, comunque, non possono esimersi dall’imporsi. E trovo importante far sapere ad bsmbino – soprattutto se femmina, perché purtroppo le servirá – che ha il firitto di non volere… I piccoli prepotenti poi, crucchi o meno, vanno educati e se non ci pensano i genitori…
Fanculo chi tratta di educazione e i genitori imparziali.
Sapere che ci sei li rende sicuri, che male c’è nel sentirsi protetti.
Non si può vivere al posto loro, ma nemmeno stare a guardare.
certo è che a volte non si fa proprio una bella figura con gli genitori
Vorrei fare come Obama e consentirle di girare sempre con bodyguard armate 🙂
Consolati. A volte nemmeno come esseri umani 🙂