questa cosa che il tempo è invidioso e sarà già fuggito

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Uno dei riti più misteriosi che si consuma negli ultimi uffici del terziario sopravvissuti alla grande bolla del telelavoro è quello delle conference call, che costituisce infatti il paradosso del luogo di lavoro inteso come spazio fisico ove esercitare la stessa comune funzione professionale volta al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Così apri di scatto le porte delle sale riunioni e vedi tre o quattro colleghi seduti intorno a un tavolo su cui troneggia un apparecchio telefonico in viva voce gracchiante a dei livelli disumani da cui si materializza l’ectoplasma di una voce quasi sempre in dialetto anglofono-corporate che impartisce direttive sotto forma di suggerimenti melliflui.

Perché non dimentichiamo che se si accetta la suddetta emanazione dell’autorità è perché quasi sempre negli uffici qui in Italia non facciamo altro che gli adattatori delle loro linee guida. Schiavi o poco più. Mettiamo accenti al posto giusto e rimpiccioliamo caratteri in maiuscolo giacché da queste parti – per chi lo sa – sono considerati errori da terza elementare. Per il resto niente, dobbiamo credere, obbedire, vendere. Ed è per questo che anche se di un buon novanta per cento del monologo a cui siamo costretti a partecipare non afferriamo granché, nessuno oltre i nostri confini si preoccupa di mascherare il proprio accento, figuriamoci quelli che sono davvero inglesi e americani se si curano di usare un linguaggio meno domestico. Immaginate di rivolgervi in dialetto lucano stretto a uno di Hong Kong.

Quindi, tanto non li vede nessuno, i colleghi osservano con scherno il dispositivo connesso con l’altra faccia del globo, il vero protagonista del meeting virtuale in quanto transfert del potere, e aspettano che assuma i lineamenti diversi a seconda delle parole trasmesse. Anche se ci si incespica sul primo “How do you do?” che per loro è una prassi e nessuno si aspetta che tu gli racconti se sei in ballo con l’avvocato in una causa di divorzio, e viceversa noi italiani ci rimaniamo male se dall’estero si glissa senza pietà sul nostra cortesia di ritorno. Le voci si accavallano e per ovviare l’imbarazzo della pessima figura di esordio dall’altra parte vanno subito al nocciolo della questione.

Ma l’attenzione dura poco e i blocchi che vecchi clienti hanno lasciato qui con i loro brand ormai alla terza o quarta acquisizione impressi in calce, si riempiono foglio per foglio di fiorellini, pentagrammi, personaggi dei fumetti, profili e nomi inventati, a seconda della disciplina artistica più consona all’indole dei partecipanti fino al tanto agognato saluto finale che viene a seguito del silenzio alla domanda se qualcuno ha altre domande. Nessuno ha abbastanza fegato, magari è pure quasi l’ora di pranzo e fa male pure lo stomaco. Ed ecco la campanella. Ok, bye. I fogli impiastrati di cornicette si buttano subito dopo. Perché se è vero che il fuso orario è differente, il tempo lo si perde lo stesso e con la medesima unità di misura.

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