C’è un curioso quanto consolidato fenomeno che riunisce almeno quattro generazioni di italiani – nonni, adulti, adolescenti e bambini – e che probabilmente è il solo che li mette insieme tutti in un unico luogo che, per darci un tono, chiameremo il dancefloor. A questo fenomeno è stato dato un nome che oggi fa rabbrividire chiunque intenda la danza come sfogo individuale delle membra secondo la propria indole, catarsi dell’identificazione fisica con questo o quel ritmo, elevazione massima dell’emotività derivante dall’assimilazione melodica e reinterpretazione allo stato brado di successioni di pattern armonici tramite quel tipo di espressività che è singolare tanto quanto ogni mappa genetica. Per non parlare di chi intende la danza come spintonarsi l’uno contro l’altro dopo un paio di birre. E mi riferisco ai balli di gruppo, che quando uno li vede si chiede chi l’abbia inventati e la risposta è semplice perché la danza collettiva è antica quanto l’uomo. Allora il colpevole va ricercato in chi ne inventa di nuovi perché oggi sono uno dei principali veicoli di guadagno tramite diritto di riproduzione del brano musicale ad essi associati, che è rimasto uno dei pochi modi che hanno i compositori di trarre qualche profitto in campo musicale ai tempi della dematerializzazione e della digitalizzazione dei contenuti. Azzeccare un successo che ogni sera in ogni villaggio turistico o altro locale adibito al divertimento di massa venga riprodotto ed eseguito tutti insieme guidati da un master alla guida di ogni mossa è quasi meglio di una hit da classifica che, al secondo o terzo mese, lascia il posto al tormentone successivo. Qui no perché i tempi sono più dilatati, vige ancora il sistema del passaparola e dell’adattamento alle richieste del pubblico da parte della struttura come principali canali di diffusione perché tutti vogliono ballare insieme questo o quel pezzo e quelli universalmente conosciuti come gli animatori devono adattarsi volta per volta alla nascita di un nuovo trend. Ma non ne faccio una questione morale giacché gli ascolti riflettono bisogni reconditi e chi sono io per trarre giudizi. Mi limito a invitarvi a notare il compiacimento collettivo che deriva dalla sincronicità dei movimenti e dall’esecuzione di massa dei passi, quasi che l’associazione di un gesto a rimarcare una parola o un verso o un passaggio strumentale possa essere comunque comune a individui così eterogenei non solo per età ma anche per altri fattori. O forse no, il fattore comune è l’appurare che un ritmo possa essere rappresentato fisicamente solo così, come il danzatore alfa comanda, un patto non scritto tra uomini e donne che dà vita a un rituale magico e guai a sgarrare, pena l’allontanamento dalla pista. Con i tedeschi che ci guardano stupiti e non capiscono. Perché, ci si chiede, a uno debba essere detto quali movimenti eseguire per provare sensazioni di divertimento con la garanzia che il divertimento stesso sia assicurato resta un arcano, come l’origine del ballo di gruppo in sé.
La naturalezza si è persa. Molti non l’hanno mai avuta e ballano solo nei villaggi e solo in gruppo, perché si sentono mimetizzati e più protetti. Nel ballo “libero” nessuno può dire che sbagli movimento, perché ognuno si muove secondo un suo istinto, però se hai problemi di autostima ti senti sgraziato e solo. Se sbagli nel gruppo, la situazione rende innocuo l’errore e anzi fa ridere. Certo poi ci sono quelli che guardano da fuori e allora…
Apri fontanela…. che dire dei brani che vivono di vita propria solo nei villaggi?
E comunque, se ci pensi, sono molte le cose che ci piace fare n modo guidato e organizzato da altri. E’ l’industria del divertimento, baby 🙂
Mi piace la tua visione olistica.
adesso scritto così mi fai provare perfino tenerezza cancellando ogni mia forma di snobismo. ma ti pare cosa devi farmi a fine agosto.
non pensavo di muovere sentimenti altrui