C’è un solitario che consiste nel mettere la carta nella sua giusta collocazione in base a valore e seme, raccogliere la carta che, a dorso coperto, occupa temporaneamente quel posto e così via, ogni carta al posto corrispondente, fino al completamento di tutte le scale dall’asso al re. C’è un gioco che si fa con la memoria e i ricordi. Si evoca un nome, una cosa o un fatto e lo si cerca di contestualizzare con l’obiettivo di ricostruire mappe di esistenze remote comuni, e lo si fa quando alcuni dei giocatori sono anziani. Magari c’è qualche problema nel mettere a fuoco gli avvenimenti, e comunque si ritiene che la sopravvivenza del passato possa costituire un patrimonio utile a conoscere frammenti di sé, della propria personalità, del vissuto che per sua natura è intriso di presente. E le microstorie in cui i nostri avi sono stati protagonisti e noi magari solo comparse perché a quell’epoca eravamo importantissimi per certi versi ma insignificanti per altri, suscitano la nostra curiosità per gli ambienti a cui siamo famigliari, o che abbiamo sempre meno nitidi nelle nostre reminiscenze. Altre vite nelle stanze che abbiamo occupato per anni, altre mani che hanno letto libri su cui abbiamo forgiato il nostro immaginario, altri sguardi che hanno impresso pellicole rudimentali che ora scrutiamo negli occhi che non sono più vivi se non in quell’istante che li ha ripresi inconsapevoli di essere ritratti per l’eternità, o almeno solo per i posteri di cento anni dopo che chiedono di loro attraverso chi ancora può tramandarne le gesta, sempre meno dettagli da raccontare generazione dopo generazione ancora una, al massimo due volte, e poi basta. Saranno spenti per sempre, nomi su un albero genealogico da guardare con stupore perché conservano qualcosa di piccolo e remoto di noi ma in un’altra era che solo loro, i volti di quei ritratti e gli oggetti che qualcuno ci ha tramandato in loro vece, possono raccontarci.