Fallita l’idea dello stato come ammortizzatore sociale, una debacle in fieri che mostra tutto il suo cinismo proprio in questi tempi di distribuzione trasversale delle nuove povertà, quelle che in un periodo di bagordi sarebbero state salvate in tempo da cassa integrazione e impieghi pubblici di basso profilo, il nostro vivere ha modi sempre più soggetti ai processi del lavoro privato – quando c’è – e dai suoi tempi che dettano uno stile in cui l’uomo ricopre un ruolo tutt’altro che centrale. Il profitto e la pratica del suo salvataggio – non esprimo un giudizio etico, non ne ho le competenze – ci hanno soffiato la parte da protagonista, forse con merito, chissà. Siamo ormai ridotti a comparse marginali e facilmente sostituibili nel nostro compito di “far funzionare la macchina”, che poi alla fine ci sarà un qualcosa di virtuale anche lì che accenderà il tutto nel momento del bisogno e a quel punto, a parte i tecnici e gli aggiustatutto, non ci sarà più necessità di nessuno. Ma, scenari apocalittici a parte, da un lato l’essere sempre meno quello che facciamo perché sempre più spesso non facciamo più nulla ci induce a crisi di identità dovute all’assenza di personalità al di fuori dell’ufficio. Dall’altro, la rincorsa a disporre delle nostre esistenze nei ritagli di tempo che il mercato ci offre e nelle pause caffé ci ha spinto verso passatempi on line di questo genere, coltivabili senza togliere la testa da quella che è la nostra occupazione. Ci divertiamo con l’e-mail sempre accesa e quando riceviamo un nuovo messaggio non ci costa nulla scoprire se è l’ennesimo spam o, peggio, una comunicazione importante che arriva dall’altra parte del mondo dove sì che c’è il vero inferno, altro che weekend di 48 ore e chiusura aziendale. Quelli lavorano sul serio, senza sosta. Hanno un intero continente da far crescere, mica come noi che spostiamo risorse solo nei punti dell’osso in cui è rimasta ancora un po’ di ciccia. Così viene da pensare al grande bluff. Anni di studi universitari dentro e fuori corso in cui – parlo per me – è stato impossibile staccare la spina, spegnere anche solo per qualche settimana un sistema perennemente funzionante e programmato per portare a termine un progetto pluriennale. C’era sempre qualcosa di cui preoccuparsi indipendentemente dalla stagione. L’ultimo esame prima dell’estate, il primo della sessione autunnale. C’era sempre da studiare, volendo. E quando poi, terminato il tutto, si riesce a entrare nel sistema produttivo, la possibilità di godere di momenti più o meno lunghi di respiro, in cui la stanza mentale della propria sfera professionale è davvero chiusa a doppia mandata, è solo un privilegio di pochi. E si tratta di un meccanismo senza tregua che ci è ostile perché ci impedisce di stare vicino a chi vorremmo sia fisicamente che mentalmente e che ci consegna un giorno all’inattività prosciugati di tutto, talvolta anche degli affetti, dimenticati in appartamenti privi di aria condizionata e pronti per sentirci disabituati ad avere una vita double face, dietro e davanti, dentro e fuori.