Non è certo quello che, chi non suona, immaginerebbe come la fine perfetta della serata di un concerto, ma chi suona e non si chiama Mick Jagger sa che una volta smontati gli strumenti restano solo i buoni per i drink, l’unica cosa che ci è concessa consumare nel locale. Ma quella sera, era pieno agosto e in giro di facce conosciute nemmeno una, io e Peo – Peo era una specie di bassista – e anzi quella notte perché in estate si comincia sempre tardi a suonare e non si sa mai quando finisce, io Peo sulla via di casa ci siamo fermati in un forno che spacciava focaccia senza scontrino e fintamente di contrabbando perché non avrebbe potuto vendere al dettaglio fuori dall’orario degli esercizi commerciali. Comunque abbiamo abbondato perché era un po’ che non passavamo un po’ di tempo insieme, almeno cinque anni che non ci capitava di suonare più sullo stesso palco, e altrettanti da quando entrambi non vivevamo più da quelle parti. E come ogni rievocazione storica che si rispetti, abbiamo seguito alla regola la degna conclusione di una serata inconcludente, proprio come quando quello faceva parte del nostro mestiere. Focaccia e birra, due bottiglie a testa da 66 cl a temperatura glaciale, e poi via sugli scogli per quella colazione da campioni. E non sapevamo nemmeno che ora fosse e non l’avremmo mai scoperto se a un certo punto non fosse schiarito tutto. L’alba su due amici che a malapena si erano riconosciuti qualche ora prima, e che ora sembrava proprio tutto uguale ma no, non era poi così bello nemmeno allora.