ed è un peccato perché c’erano tutti i presupposti, ma si sa come vanno le cose

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Erano una coppia di quelle che non avresti definito felice, ma era anche difficile affermare il contrario. Lui era stato tutta la vita un capostazione quando le divise di chi lavorava in ferrovia erano tutte blu e si vede che non si sentiva a proprio agio con altri colori addosso. Oramai in pensione, per lavorare nell’orto o per sistemare tutti i piccoli problemi che una casa in campagna genera ogni giorno – c’è sempre qualcosa da fare – usava una tuta blu di quelle da meccanico. Per andare in paese la mattina presto a scegliere il pesce migliore per pranzo o per passare dal ferramenta a comprare i tasselli o il filo o i chiodi si metteva pantaloni, giubbotto e cappello con la visiera blu. Per questo quelli che lo incontravano lo salutavano quasi militarmente, buongiorno signor capostazione, anche se non lo era più da anni.

Ma il fatto che sorridesse di rado era solo un’impressione. Portava i baffi perché aveva la parte superiore del labbro enorme – le figlie un po’ lo prendevano in giro per questo – e finiva che i baffoni neri gli coprivano quasi tutta la bocca e non sapevi che smorfie facesse, nemmeno quando parlava si vedeva qualcosa muoversi, quindi era difficile percepire il suo stato d’animo. Aveva anche delle mani smisurate, era di corporatura grande ma la mani quelle erano davvero gigantesche, che tutti si chiedevano cosa ci facesse con quelle mani lì. Malgrado l’ingombro, era in grado di eseguire lavoretti di fino e di precisione, per esempio lavorare le esche prima di andare a pesca o infilare il filo nella cruna dell’ago al primo colpo. Ma con la moglie parlava poco, e peccato perché lei era davvero una chiacchierona.

Lei aveva quell’espressione stampata sul viso di chi sembra che ti sta prendendo in giro, quella con la bocca piegata solo da un lato, farei un disegno se potessi per farvi capire meglio, parlava solo con metà labbra lasciando l’altra metà ferma come se fosse stata colpita da un’emiparesi. Per fortuna non era il suo caso, perché la sorte già era stata poco bonaria con lei. Per colpa di un tumore le era stato asportato un seno, cosa che lei raccontava con la soddisfazione ampiamente comprensibile di chi ha vinto una battaglia o di chi ha ucciso un animale feroce durante una battuta di caccia. E si lamentava solo di due cose. Ce l’aveva con la sfortuna, e per descrivere la propria condizione in dialetto diceva una frase piuttosto popolare, a proposito di falli che vagano nell’aria e vanno a colpire bersagli poco nobili anche a distanza di centinaia di chilometri, il cui significato è tutto sommato condivisibile. E ce l’aveva un po’ con le figlie che, già grandi, non le avevano fino ad allora dato la soddisfazione sperata, ciò che una madre a più di sessant’anni vorrebbe per essere un po’ meno mamma e diventare un po’ di più nonna.

Per questo vedeva di buon occhio i potenziali generi che si alternavano al fianco delle due figlie e ogni volta sperava che fosse quella decisiva. Non so il suo vero nome perché tutti la chiamavano Lilli. Io la conoscevo perché faceva le pulizie nell’appartamento vicino al mio. Una mattina, al bar sotto casa l’avevo vista particolarmente di buon umore e in cambio di un caffè l’avevo convinta a raccontarmi il motivo di tanta serenità mattutina, malgrado quello che si apprestava a fare per le ore successive, voglio dire passare in rassegna la biancheria zozza di uno scapolo non è il massimo della vita. Il fidanzato della figlia minore, per il compleanno della ragazza che avevano celebrato a cena tutti insieme la sera prima, le aveva regalato un set completo per dipingere. I colori a olio, la tavolozza, i pennelli e persino il reggi tela da pittore. Quando la figlia aveva strappato la carta dalla gioia aveva gettato le braccia al collo del suo ragazzo e mentre si stringevano e si baciavano la Lilli si era addirittura messa a piangere perché aveva pensato che quei due si volevano davvero bene.

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