Pochi cantanti non sopporto come Lucio Battisti. Forse Zucchero ma la lotta è dura. Vuoi la supponenza con cui siamo abituati a vederlo pervaso, in bianco e nero con il dolcevita o il foulard al collo nei programmi d’epoca. Vuoi la diffusione capillare delle canzoni del sole, quei fucking tre accordi zappati sulle corde della chitarra che so fare anche io. Vuoi la presenza forzata nel repertorio di qualsiasi musicista da pianobar – e io lo nacqui – che al momento di arringare alla folla le sue rime trite e ritrite erano le uniche conosciute da cani e porci – con il dovuto rispetto, eh – e quindi la scaletta non poteva esimersi dal comprenderlo in lungo e in largo. E infine la svolta intellettuale post-mogol che boh, voglio dire se ho bisogno di ermetismo fine a se stesso al limite ripiego su altro, Battiato è il primo che mi viene in mente. Quello che non reggo poi è la sovraesposizione estiva nei palinsesti televisivi pubblici, quando c’è da coprire un buco o da tirare tardi e non ci sono idee né risorse per programmi nuovi ecco che dal nulla parte questo o quel presentatore che lascia il microfono e la scena a momenti claustrofobici come quello sotto, che già farebbe venire caldo in macchina al freddo di novembre mentre torni a casa con la nebbia e il riscaldamento che nella centoventisette a malapena era stato inventato e una sbornia triste dopo che la fidanzata ti ha lasciato. Figurati con gli anticicloni africani in casa e le vacanze ancora da fare. Che poi ti rimane in testa tutto il giorno.