Conoscere le lingue straniere è un passaporto universale per opportunità professionali e personali senza confronti. Conoscere l’inglese soprattutto. Malgrado nuovi mercati impongano altre competenze linguistiche, essere fluent è tutt’ora uno degli skill più richiesti. Ma, consentitemi, sentirlo parlare dagli italiani è snervante. Non tanto per il livello, c’è gente che lo sa davvero bene. Non tanto per le cadenze dialettali, l’inglese con accento romanesco è un classico dell’umorismo aziendale. C’è ben altro.
Intanto novanta volte su cento l’italiano in Italia parla in inglese al telefono, e quando parla in inglese al telefono sbraita più del normale. Probabilmente alzare il tono della voce è un modo istintivo di occultare la propria insicurezza e il conseguente nervosismo, non so eh, oppure vige la reazione inconscia che aveva mia nonna: più è lontano l’interlocutore, più forte occorre parlare nella cornetta. Nelle vie, nei luoghi pubblici, negli uffici, le conference call con l’estero coprono di gran lunga ogni altro rumore.
Il secondo aspetto fastidioso è la tensione con cui escono inscatolate le parole. Il novanta per cento del novanta per cento di cui sopra (sono tutte stime a cazzo, sia chiaro) parla con qualcuno più importante di lui, da un punto di vista dell’organigramma aziendale, raramente da qui comandiamo altrove. Le conversazioni sono spesso zeppe di giustificazioni, di perifrasi tipicamente locali rese in inglese con l’obiettivo di ridurre un danno, minimizzare un calo del profitto, dare la colpa a qualcuno o qualcosa. Il tutto accompagnato da risolini isterici e inutili tentativi di ingraziarsi l’interlocutore con battute e luoghi comuni sul tempo, ancestrali rivalità calcistiche e conoscenza dei costumi altrui da settimana enigmistica, senza offesa per la settimana enigmistica. La tensione non si ammorbidisce, all’esterno hanno capito l’antifona e ci considerano giustamente per quello che siamo.
E poi c’è la questione della latenza. A casa dei miei genitori ci sono costantemente due televisori accesi. Quello di mia mamma, ovviamente in cucina, collegato all’antenna. Quello in sala, governato da mio papà, con tanto di Sky. Talvolta i due apparecchi sono sintonizzati sullo stesso canale, ma il segnale arriva a destinazione in tempi diversi. Posso immaginare quale sia il motivo di questa asincronicità ma non ho sufficienti competenze tecniche per spiegarla. Ecco, assistere a un dialogo in cui è coinvolto un italiano costretto a parlare in inglese ci sottopone a un analogo fenomeno di latenza tra pensiero, mimica facciale e parola. Ma in quel “nero” di comunicazione che è variabile a seconda di tantissimi fattori i più scaltri rendono quello che vorrebbero dire in qualcosa di più conveniente. In genere si riduce il proprio messaggio alle parole conosciute, si sfrondano concetti, si adattano aggettivi, si capovolgono costruzioni a seconda del proprio vocabolario, si adatta il lessico alle linee guida imposte dall’alto. Il che disorienta il pubblico volontario o no, è come vedere uno che fa sì con la testa dicendo di no, che mi risulta essere l’esercizio di indipendenza del corpo più difficile. Provateci.
Io ci sono riuscita. In four and four eight.
if you don’t sit, we don’t move