Qualche cimelio ce l’ho anche io, e mi sono fermato in tempo prima di comprarne uno nuovo per il quale avrei buttato via dei soldi, anche se pochi. Avevo già una maglietta della nazionale DDR di non so che sport in mano, mi trovavo in un negozio di abbigliamento usato a Berlino dai prezzi davvero vantaggiosi. Poi ci ho riflettuto.
Perché le spillette che mi erano state regalate quando, in terza o quarta elementare, ci avevano condotto a visitare il porto e poi addirittura tutti a bordo di una nave mercantile di cui, se mi concentro, sento ancora l’odore degli interni, ecco quelle spillette non corrono pericolo di essere scoperte da nessuno. Le tengo ben nascoste in un cassetto. E, pensate, le ho ricevute su un’imbarcazione battente bandiera sovietica, non chiedetemi il perché o il percome ci era stato consentito l’ingresso. I membri dell’equipaggio, quelli che masticavano un po’ di italiano e ci avevano guidato lungo il tour, alla fine ci avevano omaggiato di gadget di regime. Una patacca in metallo con l’effigie di Lenin, un’altra con uno slogan incomprensibile in cirillico a celebrare chissà quale anniversario e, per finire, stelle rosse come se piovesse.
Invece il parka di non so quale corpo militare di non so quale stato dell’ex Patto di Varsavia è passato direttamente dall’armadio al contenitore della Caritas perché occupava troppo spazio tra rivestimento esterno e imbottitura, dopo una lunga negoziazione con mia moglie. Materiali di altri tempi, oggi nessuno si vestirebbe più così, non ha senso portarsi addosso chili inutili di abiti, senza considerare tutti i tessuti tecnici che ci sono adesso in commercio, e mi sono convinto anche io. Destino diverso per una maglietta, quella sono riuscito a conservarla, una t-shirt da vero militante addirittura con la scritta CCCP su campo rosso, un chiaro richiamo al gruppo musicale più che all’impero d’oriente. E a dir la verità non metto più nemmeno quella. Insomma, non mi ci vedo a quarantacinque anni con i capelli quasi grigi ad andare a prendere mia figlia a scuola con la maglietta dei CCCP. Suvvia, siamo seri.
E ho riflettutto anche sul fatto che i libri di riferimento, in casa, sono nei ripiani più alti dei mobili. A nessuno qui verrebbe in mente di rilassarsi leggendo Marx o Engels. L’ultima volta che ho preso in mano il Manifesto del Partito Comunista è stato anni fa, quando ho scattato una foto memorabile di me che tengo in braccio mia figlia, avrà avuto quattro o cinque mesi. Le ho fatto stringere il pugnetto con il braccio alzato e, davanti agli occhi, le aperto una pagina a caso del libro mentre mia moglie ha ripreso la scena. Mia figlia è rimasta con un’espressione un po’ perplessa, chissà quali erano i suoi pensieri in quel momento. Poi la foto l’abbiamo pure stampata e appesa nella sua cameretta. Si vede lei attratta da quel libro aperto davanti, ci sono io con tutta la mia boriosa consapevolezza di avere avuto un’idea così esilarante, e si riconosce la matrice politica della copertina del libro.
E a quel punto il cerchio si è chiuso, in quel negozio berlinese di abbigliamento usato. Perché ho pensato che quella foto è l’unica prova dei cimeli culturali in mio possesso riconoscibile e che già tante volte ho pensato di far sparire dalla circolazione. Ma solo perché probabilmente alla signora ucraina che ci aiuta nei lavori domestici trovarsi in mano magliette con falci e martelli o compassi e altri simboli di un passato così contraddittorio non farebbe piacere. Io, una volta, in una taverna alla festa di uno sconosciuto, avevo fatto sparire con un gesto da prestidigitatore un ritratto del nostro passato più contraddittorio, quello con il mascellone per intenderci. E chissà, forse la signora ucraina farebbe lo stesso, e ci rimarrei male ma, in fondo, so che non la biasimerei.