A volte non riconosceva i luoghi, molto più spesso erano i luoghi a non riconoscere lei. Andava nel panico e cercava intorno qualcosa di famigliare, qualche elemento riconoscibile per capire dove si trovasse. L’insegna sul capannone, il parcheggio a pagamento, i venditori ambulanti ma solo se fuori non pioveva. Poi si tranquillizzava perché c’era ancora un po’ di tempo, quella dopo sarebbe stata la fermata giusta. Erano i vetri a specchio degli esercizi commerciali desueti che restituivano l’immagine che aveva di sé diversa a seconda dell’umore, variabile a seconda della temperatura, più o meno colorata a seconda di quello che aveva indossato. Due figure in movimento lungo traiettorie incidenti che si avvicinavano con la medesima velocità in cui c’era tutto il tempo di fare il check completo. Stesse scarpe, stesso cappotto, stessa sciarpa, fin su negli occhi. Poi la pettinatura e gli accessori. Infine la postura, la borsetta stretta sotto l’incavo del braccio destro, l’altra mano in tasca. Per fortuna tutto coincideva alla perfezione, poteva ancora contare su sé stessa almeno per le successive ventiquattro ore.
Tutti abbiamo i nostri pensieri irragionevoli di conforto. Io verifico se sono ancora capace di camminare, non ce la faccio a stare troppo seduto, devo alzarmi e controllare, non si sa mai.
Bell’incipit 🙂
anche a me lo stare fermo fa lo stesso effetto, il massimo è correre per raggiungersi e ritrovarsi e poi fare la doccia tutti insieme
dici? Provo a svilupparlo, allora 🙂