fenomenologia del giro armonico

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Ascoltando per la milionesima volta Enola Gay degli OMD, ma secondo me se avete un buon orecchio anche prima, vi sarete accorti che la arcinota pietra miliare del synth-pop dei primissimi eigthies è tutta stramaledettamente uguale, dall’inizio alla fine. Sarà questo il suo punto di forza? Un continuum di strofe o di ritornelli, a vostro piacimento, dall’inizio alla fine, alternato solo al cantabilissimo riff di sintetizzatore ma dalla sequenza armonica invariata e a un break che comunque lascia presumere la completa aderenza al resto dei pattern che interrompe, cosa che si deduce dalle ultime due battute in cui ricompaiono gli accordi in crescendo. Perché di un giro armonico si tratta, il classicissimo I, relativo minore, IV (relativo maggiore a sostituzione del II minore) e V risolutore anche senza la settima. La storia del pop è piena di composizioni scritte ed eseguite secondo tale successione, è facile dilettarsi con mash up mentali o cantati di Enola Gay con qualsiasi altra canzone con analoghi intervalli,  “Let’s twist again” è la prima che mi viene in mente. Tutto questo perché il giro in questione fa parte dei primi rudimenti per un approccio attivo a un qualsiasi strumento d’accompagnamento armonico, piano o chitarra per esempio. Corrisponde all’ABC per gli strumentisti, che con quattro accordi, se sono dotati di una voce accettabile, posso lanciarsi nell’esecuzione di una miriade di brani, italiani e non. E solo un siffatto mantra di sigle può non annoiare l’ascoltatore e placare la smania da risoluzione in ritornello; la ripetizione del giro riduce l’ansia da apertura trionfale verso il climax melodico perché si rincorre ad libitum, sufficiente a sé stessa in un andamento ricorsivo che trasmette la sicurezza di ripartire, ogni volta, dallo stesso punto senza rischio di smarrimento del riferimento tonale. Un fenomeno curioso sicuramente generato dall’abitudine all’ascolto, tanto che le orecchie vergini come quelle dei più piccoli sono le uniche che sono in grado di reagire al moto perpetuo del giro, sbuffando e reagendo come solo loro sanno fare, applicando la stessa insofferenza a mantenere la stessa posizione con il corpo per più di pochi secondi. Che, su un riproduttore audio, si traduce in “papà, ma ‘sto pezzo è tutto uguale, metti quello dopo”. Che, per mia fortuna, è Electricity.

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